“Nonostante il deciso cambiamento di umore tra le date, e l’atmosfera apparentemente sfalsata, il costrutto musicale si ricompone magicamente in un tutt’uno scorrevole e la magia è garantita: Coltrane è sempre Trane!”
// di Francesco Cataldo Verrina //
Quando si ascolta un qualsiasi album, anche pescato al buio nel mazzo della folta discografia di Coltrane, magari uno di quelli fatti di contenuti provenienti da differenti sessioni ed incollati con l’adesivo neoprenico, alla fine si ha sempre una sensazione di equilibrata armonia d’insieme. Potrebbe essere il caso di “Stardust” pubblicato nel 1963 dalla Prestige Records ed assemblato con materiale di repertorio inedito proveniente da registrazione del 1958 effettuate presso lo studio Van Gelder. “Stardust” è uno dei tanti album che Bob Weinstock raffazzonò con brani residuali: le quattro tracce provengono da due sessioni registrate nel luglio (tracce 1 e 3) e nel dicembre (tracce 2 e 4) del 1958.
Nel primo set, Trane è affiancato dal trombettista Wilbur Harden, dal pianista Red Garland, dal bassista Paul Chambers e dal batterista Jimmy Cobb; Garland e Chambers tornano per il secondo set, ma con Art Taylor alla batteria ed un giovane Freddie Hubbard che suona la tromba nella quarta traccia. Nel 1958, John Coltrane doveva ancora guadare dal classico hard bop al modale post-bop, nonostante la tecnica dei “fogli di suono” usata dal sassofonista costituiva, certamente, uno degli elementi più creativi e distintivi che il bop potesse esprimere alla fine degli anni ’50.
“Stardust” non un disco rivoluzionario e non viene mai citato nell’eterno dibattito su quale sia il “più riuscito album di Coltrane”, ma le due sessioni sembrano completarsi a vicenda, pur essendo già superate e fuori dal contesto coltraniano del 1963, creando una certa destabilizzazione nel fruitore medio dell’epoca, poiché registrate ben cinque anni prima, un lasso di tempo in cui il sassofonista aveva rivoltato sé stesso ed il suo linguaggio sonoro come un calzino. Nonostante il deciso cambiamento di umore tra le date, e l’atmosfera apparentemente sfalsata, il costrutto musicale si ricompone magicamente in un tutt’uno scorrevole e la magia è garantita: Coltrane è sempre Trane! “Stardust”, come altri album, furono pubblicati dopo che il sassofonista aveva firmato con l’Atlantic, e raramente la critica li ha considerati come “ascolti indispensabili”. L’album dipinge un quadro con le sfumature ed i colori tipici della produzione coltraniana del 1958, ed è lì che va collocato, tenendo conto delle variabili del periodo.
A conti fatti “Stardust” potrebbe essere considerato come un precursore del successivo album “Ballads” su Impulse! Records. Quest’ultimo fu il risultato della pressione che Bob Thiele esercitò su Coltrane perché producesse qualcosa di più commerciale e facilmente fruibile. Situazione completamente diversa per “Stardust” in cui Trane fu libero di suonare, sia pure in modo sfumato e ponderato, ma senza condizionamento alcuno. La title-track apre l’album con un’originale lettura della classica melodia di Hoagy Carmichael, arricchita da tono rotondo di Coltrane con suo assolo da manuale che unisce un perforante lirismo ad occasionali scaglie di modernità, mentre Chambers tira fuori l’arco per la sua battuta di caccia sulle corde del basso. “Time After Time” è un altro standard molto gradito a Coltrane il quale ricuce il tessuto melodico, creando una trama molto personale, mentre la sua improvvisazione diventa il momento culminante. “Love Thy Neighbor” è l’unico brano dai connotati differenti: un up-tempo basato sullo sviluppo degli sheets of sound e dominato dai sedicesimi; dal canto suo Garland elabora un intrigante assolo cogliendo al volo l’assist di Harden.
A suggello del disco un’altra ballata, un evergreen di Harburg-Schwartz, “Then I’ll Be Tired of You”. dove il sassofonista domina ancora a tutto campo, tranne nel finale, quando l’assolo di Hubbard alla tromba ricalca lo stile del fraseggio coltraniano. “Stardust” è un album accurato senza eccessivi tecnicismi: Trane ammalia senza spingere mai la macchina al massimo e contenendo perfino le variazioni di interplay; la narrazione musicale è molto diretta e senza una nota fuori posto. Siamo alle prese con l’anima più sentimentale di Coltrane, dove l’impressione supera l’espressione. Dischi di tal fatta potrebbero sembrare “mansueti”, ma non sono per nulla claudicanti, soprattutto vanno considerati più o meno allo stesso livello della maggior parte di altre registrazioni Prestige e di certe produzioni pre-Atlantic.
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