“Trane considerava i suoi album come viaggi meditativi o catarsi rigeneranti che alteravano le convenzioni del vernacolo jazzistico, mentre, quasi per partenogenesi, emergevano nuove tecniche esecutive ed approcci orchestrali”.

// di Francesco Cataldo Verrina //

John Coltrane è stato un pioniere del jazz spirituale. Per lui la musica non era solo una forma di arte fisica, ma un’esigenza di comunicazione sensoriale; una metodologia espressiva in cui il suono poteva descrive un tipo di sensazioni che nessun singolo accordo o insieme di note avrebbe saputo raccontare, se privato della sua intima religiosità. Tutto ciò era quasi palpabile nella sofferenza che sanguinava delle note di cui Trane si liberava attraverso un travaglio creativo simile a quello di un parto. Egli considerava i suoi album come viaggi meditativi o catarsi rigeneranti che alteravano le convenzioni del vernacolo jazzistico, mentre, quasi per partenogenesi, emergevano nuove tecniche esecutive ed approcci orchestrali. «Kulu Sé Mama» è un lavoro induttivo, per quanto contraddittorio che, per paradosso, possiede una specie di astrattismo concreto, tale da spingere il fruitore più avveduto verso un’esperienza di ascolto coinvolgente, quasi totalizzante.

«Kulu Se Mama» è un costrutto di laboratorio, assemblato dal sassofonista con la complicità del produttore Bob Thiele, ma distinto ed unico rispetto al canone coltraniano. Ed è proprio in certi elementi di stranezza che va ricercato il suo duraturo fascino, astrale, spiritato, ipnotico, quasi tridimensionale. Trattasi di un album registrato in tre sessioni nel corso 1965, tra il New Jersey e Los Angeles, con due formazioni differenti e pubblicato nel gennaio 1967, sei mesi prima della morte di Coltrane; un vero e proprio mélange che cattura alcuni degli ultimi momenti di gloria del quartetto classico ed una jam libera dal ritmo pesante e dal groove pressante, alleggerita solo dal surrettizio canto di Juno Lewis.

La title track, «Kulu Se Mama», emerge come un’epica suite, o narrazione espansa di oltre diciotto minuti, decorata da un’estetica tribale ricca di canti ancestrali, amuleti, percussioni e tamburi, ma non è un inno di guerra, piuttosto appare come rito propiziatorio che riesce a tenere a bada ed in equilibrio i demoni e gli spiriti di un’Africa apotropaica, tra magia e spiritualità, finendo per elaborare un costrutto alquanto progressivo e votato ad un moto ascensionale dell’anima. Ciononostante, il risultato è un infuso sonoro denso ed inebriante, pieno di colore e di spezie, ma che non riesce a coagulare del tutto, nonostante la lunga durata, sostanziandosi come un’ottima jam di gruppo, a tratti tentacolare e senza coordinazione. In fondo, era ciò che Coltrane stava sperimentando, ossia una recita a soggetto senza canovaccio, un by-play libero da vincoli e prescrizioni.

Se concepito negli anni 2000 «Kulu Se Mama» sarebbe stato etichettato come musica etnica. Dopo un’introduzione ricca di atmosfera slegata da ogni vincolo spazio-temporale, l’impianto sonoro si assesta in una dimensione quasi lirico-tribale interrotta dai frastagliati assoli funkified di Coltrane, mentre Pharoah gli fa da cassa di risonanza diventandone un riflesso. Al contrario McCoy Tyner magnifica il percorso con un personale assolo da manuale: tutta farina del suo sacco. Progressivamente la voce di Juno Lewis si unisce al clarinetto basso di Donald Garrett, mentre il basso di Jimmy Garrison, le batterie di Elvin Jones ed Frank Butler e le percussioni dello stesso Juno alimentano un groove neo-africano. Una piccola curiosità: il percussionista/vocalist Juno Lewis fu anche autore della poesia riprodotta per intero sulla busta interna dell’album, oltre a suonare una mezza dozzina di tamburi e percussioni.

«Vigil» è un frenetico impeto free jazz, un duetto tra il sassofono di Coltrane e la batteria di Elvin Jones, quasi un preambolo alle successive sessioni di Trane e Rashied Ali che avrebbero portato al noto «Interstellar Space», pubblicato postumo. Elvin Jones inizia con un eruttivo assolo di batteria, prima che Trane prenda il sopravvento con un reiterato rilascio di assoli in forma libera. «Welcome”, eseguita dal quartetto classico, è uno dei componimenti più intensi che Coltrane abbia mai composto, un pezzo liricamente potente e formalmente grazioso, sereno e amabile, che mette in evidenza l’affiatamento del sassofonista con McCoy Tyner. Nella successiva edizione in CD furono inserite altre tracce, tra cui spicca «Selflessness», caratterizzata da un duetto fra Coltrane e Pharaoh che uniscono le loro energie in un amalgama quasi totale, tracciando le coordinate di un viaggio che si snoda lungo stati d’animo mutevoli, passando dalla quiete emotiva alla tempesta e viceversa, dalla un mood quasi meditativo ad un atteggiamento aggressivo.

Generalmente questo disco tende ad essere trascurato a favore di lavori quasi contemporanei come «A Love Supreme» (Impulse!, 1965) ed «Ascension» (Impulse!, 1966), dai quali riprende molti elementi. Registrato nel giugno e nell’ottobre del 1965, ma pubblicato nel gennaio 1967, «Kulu Se Mama» è un album vibrante e furente al contempo, ma accessibile e fortemente spirituale che, senza ombra di dubbio, potrebbe fare il paio con «Tauhid» di Pharoah Sanders (Impulse!, 1967) o «Ptah, The El Daoud» di Alice Coltrane (Impulse!, 1970).

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