“Ottimo alleato per questa riuscitissima performance fu certamente Bill Evans che arricchì le progressioni di Cannonball con le sue intricate trame pianistiche”.
// di Francesco Cataldo Verrina //
Disco alquanto anomalo per quel periodo, poiché registrato a New York in tre sessioni differenti: il 27 gennaio, il 21 febbraio ed il 13 marzo del 1961. Dalla sintesi dei tre set nacque l’album più riuscito e raffinato di Cannonball Adderley, intimamente e realmente più suo rispetto a “Somenthin’ Else”, del quale la vera paternità avrebbe dovuto essere attribuita a Miles Davis, dei cui insegnamenti l’altoista fece tesoro, creando un atmosfera più rilassata, intima e cool, inserendosi sulla falsa riga di “Kind Of Blue” e distanziandosi dal quel bop brioso e guascone che Adderley propinerà al mondo negli anni successivi. Un team di lavoro perfetto nella sua dimensione quadrangolare: Cannobball Adderley al sax alto, Bill Evans al piano, Percy Heath al basso e Connie Key alla batteria.
Ottimo alleato per questa riuscitissima performance fu certamente Bill Evans, che non solo arricchì le progressioni di Cannonball con le sue intricate trame pianistiche, ma valorizzò anche se stesso, ponendosi in una dimensione meno assolutistica e solitaria, dove proprio grazie alla presenza diluente del sax, il suo vorticoso crescendo di accordi si mostrò più facilmente intellegibile e fruibile, a cominciare da brano di apertura, “Waltz For Debbie”, di cui venne realizzata una delle migliori versioni in assoluto. Il piano dell’autore, Bill Evans, cavalca l’onda degli accordi con tocco delicato, aumentando ed espandendo il gradiente melodico, mentre il sax di Cannonball, sussurrato quasi con un filo di voce, ne sottolinea i tratti salienti con andamento spaziato ed arioso, senza rincorrere le note, ma convogliandole singolarmente, quasi per incanto, nel condotto uditivo dell’ascoltatore. E qui, Miles Davis docet!
A seguire la celeberrima “Goodbye” di Gordon Jennings, che ripete la medesima formula di scrittura e lettura, ma a ruoli invertiti, qui è Adderley a reggere le fila e ad annunciare il tema, mentre Evans rielabora la melodia con un procedimento più ritmico e meno complesso, pur mantenendo un ruolo di primo piano; in seconda battuta Cannonball appare più risoluto e pungente verso l’alto, ma quando scende, la voce del sax diventa sofferente come un tromba in sordina. “Who Cares?” di Gershwin viene restituita sotto forma di un mid-range swingante con un drum and bass perfettamente in linea, Perscy Heath e Conny Key diventano un tutt’uno dapprima con il sax e poi con il piano di Evans, il quale si libera in un interludio da manuale, perfettamente integrato in un contesto moderatamente bop. La chiusa finale con il ritorno in auge del sassofono è davvero un armonioso incanto a quattro mani. A suggellare la prima facciata dell’album è “Venice” di John Lewis, un ballata dall’andamento felpato con il passo di gatto che cammina circospetto nella notte, una serenata venata di malinconia umida come la città lagunare: il piano di Evans intesse arazzi sonori a tinte sobrie, quasi impercettibili, mentre il sax di Cannonball graffia le note, facendole sanguinare di emozioni.
La B Side si apre con “Toy” uno degli standard più famosi di Clifford Jordan, orecchiabile ed a presa rapida, estraneo all’atmosfera complessiva dell’album, ma usato come specchietto per allodole per gratificare gli amanti del bop, ciò crea uno sbalzo d’umore, dovuto anche al fatto – come già detto – che l’album fu la summa di tre differenti sessioni; con la seconda traccia si ritorna al contratto di lavoro iniziale, “Elsa” di Earl Zindars diventa un’arma micidiale nelle mani di Bill Evans, capace di impallinare e disintegrare gli animi più sensibili, mentre il sassofono alto scende in basso sul registro di un tenore, “Mancy (With The Laughing Face) è una melodia immortale, bagnata nel blues e buttata nel cuore di una notte per amori solitari.
Alcune note di piano lanciano il tema della title-track, “Know What I Mean”, seconda traccia a firma Bill Evans, dove nella fase iniziale sax e piano giocano a creare un’ambientazione quasi misteriosa e sotterranea, fino all’arrivo di un breve assolo di basso, che innesca una pulsazione ritmica, cadenzata e funkness, con l’aiuto della batteria che trascina il sax in un contesto “soul” molto congeniale a Cannonball, Evans non si perde d’animo, o meglio non si perde “l’anima”, piuttosto la ritrova e sta al gioco, sancendo uno dei momenti più riusciti dell’album. La traccia aggiuntiva presente come bonus sulla ristampa in vinile, è un’alternative take di “Toy” di Brown. Ciò rafforza la convinzione che Adderley avesse dato a questo brano un’importanza notevole per le sue caratteristiche d’immediatezza e d’impatto. “Know What I Mean”, oltre ad essere il climax della carriera del corpulento altoista, parte del merito va data a Bill Evans, rimane certamente uno di quegli album da aggiungere alla vostra collezione di vinili jazz essenziali.
