// di Francesco Cataldo Verrina //

Per valutare al meglio taluni dischi, bisogna inquadrare bene il periodo storico in cui sono stati concepiti, soprattutto perché un titolo come «Thelonious Monk & Sonny Rollins» potrebbe apparire fuorviante, dato che l’allora giovane sassofonista di Harlem è presente solo su tre delle cinque tracce. Quando le tre sessioni ebbero luogo, fra il 1953 ed il 1954, Sonny Rollins era ancora un giovanissimo talento alla ricerca di una sua dimensione, schiacciato da problematiche esistenziali di varia natura ma, nel 1956, quando l’album venne dato alle stampe, il futuro Colosso era diventato già una realtà importante nell’ambito del bop. A questo punto, i maggiorenti della Prestige pensarono di capitalizzarne la fama, affiancandolo come testa di serie al Monaco, il quale era già ad un punto risolutivo della sua carriera.

L’album si sostanzia come una specie di compilation razionale basata sui contenuti provenienti da tre differenti sedute in formato quintetto, trio o quartetto, che diedero vita ad un lotto di esecuzioni di buon livello qualitativo. Indipendentemente da ogni considerazione ex-post, questo primo incontro fra due riconosciuti giganti del jazz mondiale che, pur producendo musica di innegabile significato ed interesse storico, non è all’altezza di ciò Rollins avrebbe fatto successivamente o di quanto Monk avrebbe realizzato in altre circostanze.

«Thelonious Monk & Sonny Rollins» , che comprende due standard e tre componimenti del pianista, venne assemblato al contrario, dando l’onere della partenza a due coinvolgenti e vivaci hard-swingin’, «The Way You Look Tonight» ed «I Want To Be Happy», vale a dire ai due brani non originali usciti dall’ultima sessione, caratterizzati dal pressante e dinamico tandem ritmico, Tommy Potter al basso ed Arthur Taylor alla batteria. Sebbene il tono muscoloso e potente di Rollins e le linee destre ed esplorative del pianoforte guidino la maggior parte del percorso, attraverso le dichiarazioni non ortodosse ed imprevedibili di Monk, solo «I Want to Be Happy» riesce a destare realmente meraviglia, grazie ad una struttura duttile e libera che consente ai solisti di tessere le loro inventive trame sonore, spesso contrastanti. Qui emerge il vero Monk, il quale lascia che una portante ritmica si addensi e stabilisca il cammino, prima che egli possa suonare dentro, fuori ed intorno ad essa, trasformando così il piano in un’altra voce poliritmica e percussiva. Monk procede con un assolo per tre cori, molto originali nel concept e nell’esecuzione, mentre Rollins lo segue a ruota con convinzione, quasi incoraggiato dal metodo del collega. Al contrario, in «The Way You Look Tonight», l’assolo di Monk è solo un mezzo ritornello, suonato in uno stile bebop abbastanza convenzionale.

Alla terza traccia si entra in modalità trio con Art Blakey che suda sette camicie per agglutinare l’atmosfera enigmatica di «Work», mentre Percy Heath appare intento a studiare la tesi sperimentale ed analitica del pianista, quasi in tempo reale. La coppia portatrice di ritmo si adopera alacremente per stabilizzare ed iniettare stille di regolarità nelle divagazioni esplorative e sui generis del Monaco; al contrario sembra che su «Nutty» venga raggiunto il cosiddetto break-even-point, poiché i due sodali decidono di assecondare gli stati d’animo vivacemente alterati del band-leader. Entrambi intercettano alla perfezione l’inquietante e distinto senso della melodia di Monk. In special modo i rotolanti contributi percussivi di Blakey si spingono audacemente nel disarticolato lavoro accordale del pianista.

«Friday The 13th», (che per gli Americani superstiziosi corrisponde al nostro venerdì 17), nato dalla prima delle tre sessioni, chiude l’album con un instancabile mid-range srotolato sulla distanza di dieci minuti e magnificato da Percy Heath al basso e dal batterista Willie Jones. Rollins al sax tenore e Julius Watkins al corno francese infondono nel tema iniziale un’intrigante sfocatura: il primo procede con un tono insolitamente cupo che non gli impedisce di scagliare un assolo a caduta libera, caratterizzato da una ripetitiva sequenza circolare; per contro Watkins appare più introspettivo e crepuscolare, senza mai perdere il swing e l’articolazione. Dal canto suo Monk dimostra di non credere alla superstizione dei numeri; così il suo assolo diventa un arcobaleno di emozioni che dà il tono all’interplay finale fra tre solisti, influenzando reciprocamente le calibrate asserzioni della retroguardia. Dissonante ed estesa, «Friday The 13th» rappresenta forse la più riuscita cooperazione di sempre tra i due co-leader, dove Rollins non ha alcuna difficoltà ad intrecciare una trama sinuosa attraverso il contrappunto del Monaco fatto di accordi spigolosi ed idiosincratici. La superstizione è fugata, ma la magia, ancora oggi, persiste.