// di Francesco Cataldo Verrina //

Premessa

Una volta in un’intervista ad Umbria Jazz, Gil Evans mi disse qualcosa del genere: “I’m not a jazzman, I’m an orchestra conductor, an arranger, a composer. I go where the music takes me“. La mia domanda era stata, più o meno, da cosa nascesse il legame tra un jazzista e Sting. Quindi lo incalzai dicendo: “Sure, I knew it! You’re here with Sting, the music takes you very far from jazz“. Lui mi guardò come per dire, questo vuole farmi scivolare, allora si riprese dicendo: “Today Sting is a possible evolution in contemporary jazz!”

Gil Evans è stato un un musicista geniale, grande comunicatore, un perfetto incubatore di tendenze, sapendosi adattare a qualsiasi circostanza. Non so se abbia imparato più lui da Davis o quest’ultimo da Gil Evans, soprattutto nella gestione degli “affari” musicali. I due si completavano a vicenda ed hanno prodotto momenti di eccellenza musicale, che però molti autorevoli musicologi collocano ai margini dal jazz, in una sorta di limbo, nei pressi di una mancata “terza via”. Gil Evans non era un jazzista puro, di certo trovava sempre il modo per adattarsi e riadattarsi al linguaggio del jazz o adattare qualsiasi cosa al jazz: dal mambo a Jimi Hendrix.

The Gill Evans Orchestra Plays The Music Of Jimi Hendrix, 1974

Questo può essere considerato il vero “compromesso storico”, tra il jazz ed il rock. Un punto di confluenza autentico, e non un tentativo di snaturare il jazz e di alterare il rock, come avveniva in moltissimi dischi fusion, che allo stato delle cose non erano né rock e né jazz, ma una cosa altra, un miscuglio di acqua e vino, che spesso finiva per inacidire l’una e l’altra componente. In The Gill Evans Orchestra Plays Jimi Hendrix, l’incontro tra rock e jazz è razionale ed equilibrato, l’impianto base dei pezzi le strutture armoniche e melodiche sono rispettate in pieno; le disposizioni di Evans sono rispettose, senza allontanarsi troppo dalle composizioni originali, cambia solo la modalità d’impiego e la tecnica d’ingaggio, soprattutto l’armamentario con cui vengono reinterpretate alcune canzoni di Hendrix.

19 musicisti contribuirono (insieme allo stesso Evans) alla buona riuscita dell’impresa: due sassofonisti (David Sanborn e Billy Harper, rispettivamente al contralto e al tenore), due corni francesi, tre chitarre (John Abercrombie, Ryo Kawasaki e Keith Loving), due bassisti, due percussionisti, un trombettista, insieme a tuba, sintetizzatori, flicorni, pianoforte, vibrafono e una lunga lista di altri strumenti. Come sempre Evans non lesinava mai, quando si trattava di fare un buon disco: questo in particolar modo, che tra tutti gli innumerevoli tributi dedicati a Jimi Hendrix, alla fine risultò essere il più originale. Evans e Hendrix avevano parlato in numerose occasioni di un progetto da sviluppare insieme grazie alla comune amicizia con Miles Davis. Il chitarrista aveva persino chiesto al jazz-arranger di insegnargli a leggere e scrivere musica, liberandolo dall’onere di dover registrare tutto su nastro in fase di composizione.


Le prove con l’orchestra di Evans erano state programmate per la fine di settembre, dopo il ritorno di Hendrix dal suo tour europeo, seguito da una performance alla Carnegie Hall, quindi un album basato sugli arrangiamenti di Evans e le composizioni Hendrix, con lo stesso Jimi come solista. Tragicamente, Hendrix morì a Londra il 18 di quel mese, tuttavia Evans non abbandonò mai la sua ambizione di pubblicare quel progetto o qualcosa di simile.
Il disco si apre con il maestoso “Angel”, dove il sassofono di David Sanborn esalta con successo la deliziosa melodia, mentre il funk-jazz di “Crosstown Traffic” gioca su uno stile alla Earth Wind & Fire, creando un ibrido molto anni settanta e dal sapore vagamente cool. Solo Dio sa ciò che Hendrix avrebbe potuto fare della rielaborazione di “Castles Made of Sand” di Evans, noi umani possiamo solo ipotizzare, ma di sicuro Jimi avrebbe approvato. Ovviamente, la presenza di Hendrix nel disco avrebbe determinato e dettato un altro svolgimento: qui le chitarre siedono in ultima fila, mentre i sassofono giocano a tutto campo e sempre in avanti.


In “Foxy Lady” la sezione fiati spinge fino all’orgasmo sonoro. In “Up from the Skies”, Evans tenta una scalata al ritmo, ma le trame strumentali, troppo complesse, avrebbero messo in imbarazzo lo stesso Hendrix. John Abercrombie e Ryo Kawasaki fanno del loro meglio con la chitarra elettrica, entrambi sono più che all’altezza del compito e, nonostante riescano a secernere dai loro strumenti abbastanza acido, non sono Jimi Hendrix, ma solo un tributo.
Il capolavoro fantascientifico di Hendrix “1983 – A Merman I Should Turn To Be” viene completamente reinventato, mentre “Voodoo Chile (Slight Return)”, canzone per chitarra, diventa un esperimento per tromba, così come “Gypsy Eyes” finisce in pasto agli ottoni che la divorano, incuranti delle chitarre.


“The Gill Evans Orchestra Plays The Music Of Jimi Hendrix”
, pubblicato nel 1974, non è rock, non jazz in senso ortodosso, ma è forse una tentativo da parte di Evans di trovare una sua personale “third stream”, quella “terza via”, tanto agognata in quegli anni.

Miles Davis & Jimi Hendrix

Come accennato, il progetto di Evans nacque dal mancato album di Davis con il chitarrista. Come spiegò Miles nella sua biografia: “Jimi Hendrix veniva dal blues, come me. Per questo ci capivamo al volo. Era un grande chitarrista blues”. La prematura ed improvvisa morte di Hendrix impedì che il progetto originario si realizzasse.