É proprio il concetto di “atemporalità” che rende “Concierto” un’opera immortale, al netto dei valori in campo. Parliamo di musica di alta qualità che cammina sul filo del rasoio tra il jazz commerciale e mainstream, vagamente smooth.”

// di Francesco Cataldo Verrina //

Quando si pensa alla chitarra nel jazz, fatta eccezione per la fusion o per il jazz elettrico, il primo nome che a molti viene in mente è quello di Wes Montgomery, difficilmente si pensa a Jim Hall, ma basterebbe ascoltare l’album “The Bridge” di Sonny Rollins, uno dei capolavori del jazz moderno per capire quanto una chitarra potesse essere in grado di non far rimpiangere il pianoforte (strumento che, oltremodo, il Colosso non amava molto). Jim Hall aveva un tratto unico e distintivo, soprattutto non ha mai cercato di suonare la chitarra come se fosse un sassofonista o un trombettista, né ha mai considerato la chitarra come un raccordo tra il jazz e il rock o come un mezzo per affacciarsi sulla ribalta della fusion.

Jim Hall ha sempre suonato nel senso più puro del termine, attraverso uno stile distintivo, estremamente caratterizzato, che si adattava perfettamente alla genetica del jazz in tutte le molteplici espressioni, facendo della sua arte un’essenza speciale per qualunque disco e per qualsiasi costrutto sonoro. Sempre in equilibrio tra armonia e melodia, Hall costruiva in maniera fine ed elegante un suono ricco di atmosfera basato un virtuosismo molto lento e contenuto, lontano dalla velocità esibizionistica o di maniera. Il chitarrista passa alla storia per aver compiuto una sorta di miracolo, che consenti alla CTI di Creed Taylor, capace di commettere un errore dietro l’altro, di precipitare nell’inferno della storia del jazz di basso livello e di ricevere una definitiva bolla di scomunica ad imperitura memoria. “Concierto” è un ‘album pastoso, ma non sdolcinato, elegante ma non stilizzato e manieristico, un’espressione del suo tempo (siamo alla metà degli anni 70), ma per contro è anche un’opera senza tempo. Perfino se fosse stato pubblicato dieci anni prima, Jim Hall avrebbe suonato alla medesima stregua del 1975, senza tentazioni free-form, all’epoca molto in voga; soprattutto il disco continua a mantenere attualità e vigore. Per paradosso, se fosse stato concepito qualche mese fa, Hall avrebbe agito sempre allo stesso modo.

É proprio il concetto di “atemporalità” che rende “Concierto” un’opera immortale, al netto dei valori in campo. Parliamo di musica di alta qualità che cammina sul filo del rasoio tra il jazz commerciale e mainstream, vagamente smooth e un ragionato ed onesto mercantilismo discografico. “Concierto” è certamente la punta di diamante della sua discografia come band-leader, dove solo la sua sentita interpretazione varrebbe il prezzo della corsa. Jim Hall seppe circondarsi per l’occasione di sodali adatti al progetto, qualche merito va anche a Creed Taylor, maestro nel cercare forza lavoro, talvolta anche in disuso. La CTI è stata una sorta di agenzia di collocamento per musicisti in dissolvenza o ai saldi di fine stagione. Hall decise di diluire l’eccesso di chitarrismo, che avrebbe potuto trasformare il progetto in qualcosa di ripetitivo e stucchevole con il sassofono di Paul Desmond; si assicurò la presenza di un bassista potente, maschio e geniale come Ron Carter, ma soprattutto tirò fuori dalla naftalina Chet Baker che, nonostante la sua immane lotta con la droga e la distanza dalle scene, infuse in alcune partiture dell’album un misto di pathos e lirismo da manuale.

“Concierto” è diventato un album seminale, se non altro paradigmatico, pur non avendo nulla di rivoluzionario e di innovativo, acquistando forza negli anni, come una palla di neve che precipita dalla cima del monte e che, rotolando, acquista la potenza di una valanga. Il fulcro dell’album è rappresentato da una convincente versione jazz del “Concierto de Aranjuez”, molto diversa e meno spettacolare di quella di Miles Davis e Gil Evans, Il Concierto di Rodrigo è utilizzato principalmente come tema da sviluppare in maniera jazzistica dall’inizio alla fine, nello specifico viene spalmato su tutti gli strumenti, ma soprattutto su chitarra, tromba e basso; le armonie ispaniche sono buttate qua e là nel gorgo sonoro e servono solo a creare una suggestione, mentre il tratto saliente diventano i lunghi assoli degli attanti in prima linea. A differenza di Davis, che prorompeva in un complesso ed intenso sistema di tensioni classicheggianti, vaporose e metafisiche con il sostegno di un’intera orchestra, qui l’atmosfera è più libera, diretta e le emozioni sono affidate alla narrazione dei singoli solisti. Hall esegue il tema con enfasi morbida e diradata, Baker è concreto ed intona con uno stile simile ad un inno, il contralto di Desmond diventa un balsamo espettorante, mentre il basso di Carter, intensamente lirico, si muove quasi a passo di tango.

La chitarra di Jim Hall non rivendica mai il posto centrale, che il più delle volte cede ben volentieri ai due fiati: un rinvigorito Chet Baker che esplode in una superba performance ed un ottimo Paul Desmond un po’ sofferente, (a quel tempo già gli avevano diagnosticato il cancro), il quale tuttavia elabora i suoi assoli con la mercuriale competenza di sempre. Non vanno dimenticati lo stile pianistico impressionista di Roland Hanna, romantico ed etereo ed il supporto ritmico di Ron Carter e Steve Gadd, entrambi molto solidi. Dando uno sguardo approfondito al line-up, emerge che ciascuno dei musicisti possedeva un background legato ad una tranquilla introspezione del jazz. Ognuno era un maestro nel capire l’uso dello spazio nella creazione di un assolo, tutti erano accompagnatori dotati e predisposti all’interplay, nessuno sentì il bisogno di dominare su gli altri, nemmeno il band-leader. L’album si apre con “You’d Be So Nice To Come Home To” una sorta cool-bop in overclocking, abbastanza energico, intenso, con una struttura armonica blues fortemente marcata, ma attraverso l’ariosità e la delicatezza degli strumentisti trasmette un’insolita calma.

Non c’è un assolo o una nota fuori posto, soprattutto Roland Hanna offre una performance da accademia del jazz. “Two’s Blues” è una traccia ricca di lirismo, riflessiva e crepuscolare che affiora dallo strumento di Chet Baker accompagnato dagli accordi finemente progressivi e discretamente virtuosistici di Hall. “In The Answer Is Yes” è una ballata up-tempo, su cui è ancora il “vecchio” Baker, calmo, emotivo, limpido e cremoso ad apporre le sue stimmate. “Concierto” rimane una delle più rilevanti uscite jazz, valide commercialmente, della metà degli anni ’70. L’album è una dimostrazione tangibile del gioco di squadra, dove la musica sembra semplicemente fluire, scivolando senza sforzo da un musicista all’altro: ciascuno di essi diventa il vettore di un progetto sonoro facilmente fruibile ed a presa rapida.