In «Out of the Cool» Evans operò meno sul concetto di ensemble tradizionale, sviluppando un mosaico sonoro ricco di classicismo, che parte dal cool o dal bop per riversarsi in mille direzioni senza possibilità di contenimento.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Quando Gil Evans nel 1960 registro «Out Of The Cool», era già un personaggio molto influente nell’ambito del jazz moderno, avendo rimodulato l’idea del costrutto orchestrale adattandola ai nuovi contesti espressivi del bebop e del cool anni ’50. Prima di questo album Evans aveva diretto tre opere di Miles Davis imparando molto da trombettista sull’improvvisazione, l’immediatezza, la spaziosità e la dilatazione dei tempi della musica; per contro Davis aveva appreso da Gil la capacità di dare colore al suono, la coerenza strutturale e la tensione dinamica.

Sin da un primo e fugace ascolto si capisce che «Out Of Cool» rappresenti un paradiso audiofilo: la qualità del suono è stupefacente. Registrato allo studio Van Gelder, l’album mostra nel folder interno perfino una mappa con la disposizione degli strumenti, la posizione dei musicisti ed i microfoni usati: Telefunken, Altec, Beyer ed ElectroVoice. Il disco fa parte della serie iniziale di pubblicazioni dalla neonata Impulse! Records: forse, rappresenta il lavoro più spettacolare sotto l’egida di Creed Taylor.

Evans si era assicurato un posto di rilievo nell’ambito della musica popolare con «Birth Of Cool», nel quale aveva espresso un jazz orchestrale di tendenza, caratterizzato da un forte senso della melodia e della dinamica. Il titolo «Out Of The Cool» evoca proprio queste prime registrazioni con Miles, ma nello specifico potrebbe essere la continuazione del lavoro iniziato nel 1957 con «Miles Ahead», foriero di un nuova tipologia di musica per big band, più sofisticata, temperata, modernista e dotata di adamantina lucentezza.

Gil Evans

In «Out of the Cool» Evans operò meno sul concetto di ensemble tradizionale, concentrandosi invece sulla sezione ritmica costruita intorno ad Elvin Jones, Charlie Persip, il bassista Ron Carter e il chitarrista Ray Crawford ed impegnata a fare da carburante alla sezione fiati rappresentata da Ray Beckinstein, Budd Johnson e Eddie Caine ai sassofoni, Jimmy Knepper, Keg Johnson e Tony Studd ai tromboni, Johnny Coles e Phil Sunkel alla tromba, Bill Barber alla tuba e Bob Tricarico al flauto e al fagotto. Come al solito, Evans dirige l’orchestra dal pianoforte, sviluppando un mosaico sonoro ricco di classicismo, che parte dal cool o dal bop per riversarsi in mille direzioni senza possibilità di contenimento.

Il brano di apertura, «La Nevada» (in spagnolo la nevicata), è un capolavoro da film noir srotolato su oltre quindici minuti di fantasmagoria tematica che Inizia con il misterioso assolo di piano suonato da Evans come una pulsazione in codice, un sorta di segnale inviato da un regno lontano a raccolta degli adepti, dove le esoteriche percussioni di Charlie Persip iniziano ad insinuarsi nella struttura ritmo-armonica creata dal basso verticale di Ron Carter, mentre Elvin Jones riadatta il codice pulsante ai piatti della batteria. Un forte senso di spaziale sospensione comincia ad ammantare l’atmosfera, mentre i fiati, quasi in lontananza, sfilano ai bordi della scena, a cominciare dalle trombe di Johnny Coles e Phil Sunkel seguite dalla tuba di Bill Barber.

A questo punto l’organico è quasi tutto in movimento, mentre la chitarra di Ray Crawford si staglia dal gruppo per pavoneggiarsi al centro del ring, accompagnata dai tromboni di Jimmy Knepper, Keg Johnson e Tony Study tampinati dal sassofono di Budd Johnson. Il sibilo secco delle spazzole di Elvin Jones e il flauto gentile di Ray Beckinstein incominciano ad esplorare il terreno, mentre Gil Evans distribuisce a piene mani carezzevoli onde pianistiche. L’amalgama dei fiati evidenzia il talento del direttore dei lavori nella stesura delle partiture sezionali: la tromba fresca ed eloquente di Johnny Coles s’intreccia con chitarra che torna a prendere il sopravvento; le note doloranti e sofferenti dei tromboni aggiungono pathos dal basso; per contro Il flauto di Beckinstein vola leggiadro sull’impianto armonico cinguettando come un usignolo innamorato.

La prima facciata dell’album si completa con «Where Flamingos Fly», dove le sonorità sono alternativamente calde, ventilate e notturne, catturando una rilassata sensazione di cool jazz in modalità West Coast giustapposto al percolante e bollente impulso ritmico delle strade di New York. Il trombone di Jimmy Knepper si muove flessuoso con il passo di un balbettante ubriaco intento a narrare una storia intrisa di malinconica, diluita dal flauto di Eddie Caine che affina il suono nutrendolo di piacevoli contrappunti. Seguendo un tema di quattro note di chitarra, flauto, tuba e trombone, l’impianto sonoro appare struggente e crepuscolare, ma spazioso e caldo al contempo. Un soffio malinconico ricorda vagamente «Summertime», in particolare nella melodia eseguita del trombone. Presto l’ensemble abbandona le pennellate impressionistiche prestandosi all’uso di una delicata colorazione dissonante che pervade la seconda strofa, specie quando i fiati cominciano ad alzare moderatamente il ritmo, permettendo così a Persip e Jones di dominare il terreno di gioco con gli strumenti a percussione prima che il brano venga ammantato da un’aria vagamente retrò in stile New Orleans. «Where Flamingos Fly», in poco più di cinque minuti, rivisita buona parte del jazz orchestrale del Novecento senza particolare affaticamento.

La B-Side si apre con «Bilbao Song» di Kurt Weill-Bertolt Brecht che evidenzia il delicato incedere dei piatti di Elvin Jones sostenuto da un coro di ottoni quasi astratto. Evans e la sua ciurma riescono a creare un’atmosfera torbida, quasi fisica evidenziando la vocazione per un crime-jazz urticante ed una drammatica ambientazione cinematografica, dove si può sentire l’odore di un pericolo in agguato nella nebbia che avvolge il porto che, come una fitta boscaglia, offre riparo ai furfanti, ai malandrini, ai sicari ed ai lestofanti, mentre la città diventa una giungla metropolitana infestata di insidie. Niente paura, è semplicemente una musica-canaglia che risucchia l’ascoltatore in un vortice di suggestioni filmiche, fumettistiche e letterarie.

«Stratusphunk» di George Russell è il componimento più spigoloso, ma Evans e compagni innestano nel costrutto tonnellate di swing. All’inizio, il walking di Ron Carter sembra in contrasto con le linee dei fiati, agili e flessuose che cominciano a materializzarsi in abiti da cerimonia tipicamente swing, ma l’eclettico Ron si adatta e si confonde nella folla senza perdere mai la strada di casa. La chitarra di Crawford, accerchiata dagli ottoni, diventa come una voce che intona la melodia di una canzone, prima di attorcigliarsi in un nodoso funk metropolitano, che consente alla tromba di Johnny Coles di disegnare un percorso alternativo per tutti gli strumenti a fiato.

L’atto finale è affidato a «Sunken Treasure», un vero e proprio tour de force per il percussionista, un pezzo lunare il cui battito cardiaco è scandito dal trombone basso e della tuba. Le gorgoglianti maracas di Charlie Persip sono incessanti, ma fiotti di sangue blues zampillano dalle trombe e dal basso di Carter. C’è una sensazione di notte profonda calata in un cool progressivo che gradualmente entra in ebollizione approdando a qualcosa di più caldo.

«Out Of Cool», ossia «fuori dal cool», ma si potrebbe intendere anche come «proveniente dal cool», nonostante la fresca brezza sia leggera e la temperatura dell’album risulti alquanto ribollente. In ogni caso, «Out of the Cool» non è soltanto il capolavoro di Gil Evans per antonomasia, ma un magniloquente esempio di jazz orchestrato, forse il più riuscito dai tempi di Duke Ellington; potrebbe essere persino paragonabile a «Mingus Ah Um», un album non dissimile nell’impostazione dei fiati all’interno di un concept moderno per big band, dove fondamentale risulta la stretta relazione degli ottoni con la sezione ritmica che ha volte determina e condiziona il movimento dell’intero sistema operativo dell’ensemble.