“La parola greca polymathía è entrata nella lingua italiana come polimatia. Si riferisce a quanti possiedono una conoscenza avanzata su molti argomenti. Polimatica può essere anche una composizione musicale che si articola su più temi”.

// di Bounty Miller //

Steve Coleman And Five Elements – «Sine Die (Death To Crack Dealers)», 1988

Steve Coleman è il profeta del jazz multitasking con l’addizionale funk compresa nel prezzo. È un pensatore polimatico, talvolta ispirato dalla natura, soprattutto il suo virtuosismo tecnico e compositivo, mentre guarda al futuro, si cala nelle tradizioni e negli stili musicali di tutto il mondo per espandere le possibilità creative. Fondatore del concetto di «M-Base», che significa grossomodo «matrice macro-base di improvvisazioni spontanee», il suono di Steve Coleman & Five Elements è alquanto semplice: il basso e la batteria dell’R&B, ossia un corposo groove, unito alle strutture armoniche del jazz, ma con la predisposizione a legarsi ad altri additivi sonori di matrice afro e terzomondista.


Nella costruzione sonora non c’è il minimalismo riduttivo di alcuni nuovi templari della BAM tout-cout, non c’è solo calcolo algebrico, piuttosto si sostanzia come una sintesi enigmatica e sinestetica di tutto ciò che è black, ma i colori che esprime sono molteplici e fatti di mille sfumature. La figura di Steve Coleman, chicagoano classe 1956, è una delle più avvincenti del jazz contemporaneo. Cresciuto nel South Side della «città del vento» a suon di blues, raccolse tutti i fermenti musicali provenienti dalla scena di Chicago, in particolare assorbi molto lo stile di Von Freeman. Dopo aver iniziato a suonare il violino nell’orchestra del liceo. passò al contralto. Suo padre, un fanatico di Bird, spinse il figlio in quella direzione, ma il giovane Coleman aveva già scelto un paradigma ispirativo: l’imponente contralto di James Brown, Maceo Parker, cominciando a bazzicare varie formazione funk. Quando lasciò Chicago, nel maggio del 1978, aveva già un lavoro fisso e guidava una band al New Apartment Lounge, scriveva musica e suonava i classici di Parker, ma era sempre insoddisfatto di ciò che vedeva intorno.

Chicago esprimeva solo posizioni musicali diametrali opposte e non conciliabili, dove gli artisti erano o troppo legati alla tradizione o eccessivamente avanguardisti. Trasferitosi a New York, ebbe la possibilità di suonare con musicisti assai diversi tra loro: da Thad Jones a Mel Lewis, da Sam Rivers a Cecil Taylor. Nei suoi primi anni newyorkesi, per sbarcare il lunario, collaborò in veste di sideman con Dizzy Gillespie, David Murray, Dave Holland, Michael Brecker, Abbey Lincoln ed altri. I Five Elements rappresentano alla perfezione l’idea della filosofia «M-Base»: ritmi metropolitani, strutture metriche e melodiche dalle complesse geometrie che gettano lo sguardo oltre i confini della musica occidentale in una combine di jazz, funk, soul, world music, in cui risulta particolarmente accentuata la matrice ritmica africana.

Steve Coleman And Five Elements

Coleman riesce sempre ad avere il controllo totale sul suo dettato sonoro. unico e personalissimo, nato da una ricerca affinata e implacabile che indaga ogni possibile anfratto dell’armonia e del beat, alla ricerca di una radice mistica del suono. Profondamente immerso nel continuum jazz, a un certo punto sembrerebbe citare perfino Coltrane. Il titolo dell’album in oggetto, «Sine Die» poggia con convinzione sull’apporto di musicisti talentuosi, i quali hanno sviluppato come una seconda pelle questo peculiare linguaggio, in cui il genius loci, Steve Coleman, sonda territori, a volte accidentati, attraverso una figura ritmica che si ripete ciclicamente fino a diventare altro.

In questo set pubblicato dall’etichetta Panagea, il sassofonista contralto si avvale di quelli che potrebbero essere definiti gli M-Base All-Stars: il trombettista Graham Haynes, il trombonista Robin Eubanks, un’affollata sezione ritmica, la cantante Cassandra Wilson e altri ospiti come il tastierista Geri Allen e i sassofonisti Branford Marsalis, Gary Thomas e Greg Osby. La musica è abrasiva ed irregolare, senza incertezze o momenti di cedimento. L’incauta Cassandra Wilson deve fare i salti mortali per districarsi in una fitta giungla di suoni che non consentono deroghe o distrazioni, diventando una sorta di bel soprammobile appoggiato su un ripiano per bellezza, ma fuori dallo stile architettonico del resto dell’arredamento: basta ascoltare «Soul Melange», terza traccia del lato A, che sarebbe stata comunque un ottimo strumentale a prescindere.

L’album si apre con «Destination», seguito da «Cinema Saga» perfetti prototipi ritmici, fatti di meccanismi montati e lucidati ad arte, calibrati eppure miracolosamente fluidi e coinvolgenti. «Circle C» è un perfetto distillato di funk-fusion, mentre «Proteus» si materializza quasi una frase orchestrale da cui viene chirurgicamente isolata una breve cellula ritmica dal groove tagliente, ma infarcito di melodia a presa rapida. La B-Side si apre con «Passage», dove il sax sembra avere in mente un Coltrane o un Wayne Shorter a mezzo servizio, senza particolare verve improvvisativa, il resto lo fa la voce della profetica Cassandra con il suo pathos mercantile intriso di urban-blues. Tutto il resto, da «First Sunrise», sempre impreziosito dal vocalese della Wilson, che pensa ad una reincarnazione momentanea di Aretha Franklin, a «Ur-Beat» e «Proteus Revamp» è complesso ritmico residenziale, esposto, demolito, ricomposto e ripetuto da ogni possibile prospettiva. «Dark to Light», ha i tartti somatici di una ballata limacciosa che emerge lentamente dall’oscurità, come un’alba tragica narrata dalla teatrale voce della declamante Cassandra. «Profile Man» è un ode alla street-culture, musicalmente scarnificata e tesa ad innalzare un totem alla sacra divinità del groove.


Registrato al Systems Two Studio di Brooklyn, a cavallo tra 1987 ed 1988, «Sine Die», è un disco sfuggito al controllo dei radar, da recuperare assolutamente, in cui Coleman traccia alcune linee principali della crescita musicale di una generazione di musicisti, proprio come aveva fatto l’AACM vent’anni prima. Il Village Voice scrisse: «La miscela sonora è pesante, la sua personalità, è distinta (…) La prima volta che si sente questa musica, sembra una macchia: le sinapsi non si accendono e la mente non si adatta (…) La potenza sta nella sua ambiguità, ma superato il concetto di alterità, la musica diventa coinvolgente. È inconfondibile il tentativo di Coleman e dei suoi uomini di fiducia di resistere all’uso ovvio e scontato del virtuosismo di maniera».