// di Francesco Cataldo Verrina //

Yusef Lateef – The Sound Of Yusef, 1957


Yusef Lateef , nato William Emanuel Huddleston, fu uno dei primi musicisti jazz afro-americani a legarsi all’Islam, convertendosi nel 1948 e cambiando in quell’occasione il suo nome, per poi recarsi due volte in pellegrinaggio alla Mecca. Nel 1975, il polistrumentista scrisse una tesi per il suo dottorato dal titolo: «Una panoramica dell’istruzione occidentale e islamica». Come segno di un crescente zelo religioso, dal 1980, egli vietò l’uso di alcolici durante le sue esibizioni. I musicisti jazz e soul si convertivano all’Islam in parte per motivi religiosi e in parte perché, come ebbe modo di chiarire nel 1953 la rivista Ebony: «l’Islam abbatte le barriere razziali e dota i suoi seguaci di obiettivi e dignitosi comportamenti». Durante gli anni della segregazione, per molti Afro-Americani, l’Islam fu un segno distintivo, specie negli Stati Uniti dove i musulmani erano circa 100.000 su una popolazione di 150 milioni di abitanti.


Il movimento Ahmadiyya ebbe un notevole successo tra i musicisti jazz degli anni Cinquanta, convertendo oltre a Lateef altri personaggi famosi come Art Blakey (Abdullah Ibn Buhaina), Mustafa Daleel (Oliver Mesheux), Ahmad Jamal (Fritz Jones), Sahib Shihab (Edmund Gregory), Dakota Staton (Aliya Rabia) e McCoy Tyner (Sulaiman Saud); perfino il cantante soul Joe Tex, eterno rivale di James Brown, divenne Yusef Hazziez Tra le superstar di cui si vocifera si siano convertite all’Islam, ci sono John Coltrane (che per primo sposò una musulmana), Dizzy Gillespie, Charlie Parker (Abdul Karim) e Pharoah Sanders, mentre Max Roach collaborò con la Nation Of Islam. Una lista di musicisti jazz musulmani annovera 75 nomi, mentre un’altra arriva a 125. Joshua Teitelbaum scrisse: «Sì, è vero, Lateef non permetteva l’uso di alcolici durante le sue esibizioni, ma l’annuncio veniva dato prima dello spettacolo, in modo che chi lo volesse, poteva tranquillamente correre al bar dietro l’angolo a bere qualcosa, prima dell’inizio del concerto».

Yusef Leteef


Estroso polistrumentista Yusef Lateef registrò questa memorabile sessione in quintetto muovendosi idealmente su una linea di confine tra America ed Oriente. Pur visibilmente attratto dai profumi d’Oriente, Lateef rimane ancora saldamente ancorato al vernacolo jazzistico. L’apporto dei musicisti e di alcuni improbabili strumenti fu determinante a creare il piacevole ed innovativo clima sonoro dell’album. «The Sound Of Yusef» nasce l’11 ottobre 1957 presso lo studio Van Gelder. Oltre a Lateef (sassofono tenore, flauto, argol, tamburello), salirono sul set Wilbur Harden (flicorno, pallone); Hugh Lawson (pianoforte, turkish finger cymbals (piatti a dita turchi), bottiglia di 7-Up, pallone, campane); Ernie Farrow (basso, rabat) e Oliver Jackson (batteria, gong cinese e earth-board).


«Sounds of Yusef» è un piacevole esempio di jazz moderno inventivo e multi-etnico, decisamente in anticipo sui tempi: una marcata tendenza verso tali ambientazioni sonore si svilupperà nell’universo jazzistico d’avanguardia soprattutto nel decennio successivo. Tra i cinque brani, ricchi di spunti e di soluzioni ritmico-armoniche, spicca una lunga versione di «Take The “A” Train» di Billy Strayhorn riportata a nuova vita, a cui Lateef, con il suo flauto magico, da una rilucidata come si farebbe con l’argenteria di famiglia, soprattutto l’apporto melodico appare più vivo e ringiovanito. «Playful Flute» non nasconde una pesante influenza africana, saltellando su strutture ritmiche più complesse; «Love and Humor», altro momento topico del microsolco, fa un uso efficace di palloncini e di una bottiglia di 7-Up, mentre «Buckingham» diventa una vetrina per il sassofono tenore di Lateef, così come la contemplativa e pastosa «Meditation» ne evidenzia il lato più sornione.

L’Africa e l’Asia sono sempre sullo sfondo e tutto ciò mette in luce un costrutto sorprendentemente all’avanguardia per il 1957, rendendo «Sounds of Yusef»una sorta di album cult e di perfetto esperimento di sintesi. Sicuramente siamo in presenza di un lavoro meno banale e prevedibile, rispetto alla miriade di ripetitivi boogaloo che uscivano a tutto spiano in quegli anni.