// di Francesco Cataldo Verrina //

Paul Bley è stato uno dei profeti e dei magnificatori del piano trio, sostenuto da Gary Peacock al contrabbasso e Paul Motian alla batteria, una sezione ritmica dotata di un’elasticità mentale ed esecutiva, nonché di una capacità di interscambio al limite del telepatico: elementi necessari, quando si aveva a che fare con le dita e il cervello del pianista canadese, che, talvolta si muoveva a velocità sovrumane. Il piano trio è quasi una formula matematica, celebrata e reiterata da mille epigoni. Dopo Oscar Peterson, Bud Powell, Thelonious Monk e Bill Evans, il piano trio è diventato un banco di prova o una trappola, un rassicurante parco giochi o un trabocchetto insidioso, in cui pochi hanno saputo districarsi ed eccellere come Paul Bley, uomo dotato di una salda poetica sempre in pronta consegna.

Forse miglior Paul Blay è rappresentato, però, dal pianista in solitaria, che stabilisce una perfetta simbiosi con il proprio strumento: di sicuro, «Blues For Red» è una delle sue massime espressioni in piano solo, un punto di elevata creatività che oltrepassa il concetto di piano trio e condensa tutto il vissuto precedente attraverso una sorta di cammino a ritroso. Il pianista diventa un dispenser di poesia, sia quando inizia una frase con un arpeggio prolungato ed una sequenza di cellule ritmiche sembrano sondare il terreno, sia che distilli una singola nota avulsa da tutto il resto facendola risuonare, mentre non sai mai dove stia andando e sembrerebbe disperdersi, anche se per logica ed attitudine al jazz ti spetteresti di sapere dove si stesse dirigendo.

In «Blues For Red», registrato allo studio Barigozzi di Milano nel maggio del 1990 e prodotto da Sergio Veschi, Bley dipinge con mano sicura quattordici quadri d’autore per piano solo che compongono un set, il quale riflette la versatilità di un interprete a larghe falde. L’accento, a volte grave, altre acuto, è sul blues, ed il pianista dimostra di conoscerne a menadito la sintassi, coprendo un ampio spettro di stili, tanto da poter irretire perfino i cultori della sua estetica più libertina. Un dato è certo: da solo, davanti al pianoforte, Bley sembra più ordinato, ma mai ordinario; è sempre un musicista libero che ha affrancato il jazz da certi gravosi luoghi comuni, ma come un assaltatore invasato di poetica e liricità. Ispirato dai demoni del blues, nell’opener «Blues For Red», che da il titolo all’album, il pianista secerne un’abbondante dose di melodismo sentimentale in «Rear Projection», mentre con «In To The Night», le ombre del crepuscolo ammantano il pianoforte che accarezza il tema, lo taglia e lo scompone come in un mazzo di carte truccate. È puro illusionismo, magia, ma senza barare, piuttosto il prestidigitatore Bley isola qualche tratto armonico del tema in rapida sequenza, quindi ritorna a scavare in profondità. Un’affinità, quasi esoterica sembra portare alla luce altre forme di inedita creatività contenute in «Above Board», che si muove tra discese ardite e risalite verso un armonioso esperanto sonoro di rara bellezza.

«Delirious Boogie» si srotola sotto le dita del pianista quasi senza soluzione di continuità, privilegiando una sorta di narrazione avventurosa, attraverso onde sonore travolgenti, mentre in «Up Hill», Bley oscilla, si ferma e riprende con note incandescenti e scorribande dense e taglienti, quasi come in una serrata arrampicata sulla collina dei desideri. «Latin Thing» è una specie di tributo a «Latin Genetics» di Ornette Coleman, ma il Canadese è un uomo libero, lascia tutto in sospeso e va a cercare un’altra casa nella quale albergare la sua musica, trovandola in «Downtown», dove emette i lampi del suo uso brevettato dello spazio, del tempo e della melodia a presa rapida: qui più che mai, sostenuta da un perfetto cluster di note energetiche. «Late The Night Blue» fluttua in un sogno a basse pulsazioni, almeno nella parte introduttiva, per poi fuoriescire dalle profondità come un geyser zampillante e sulfureo; per contro, «Baby Narrows» sembra seguirne il medesimo schema, ma al contrario, marcando però lo spirito irridente ed un po’ greve del bluesman che tende qualche trabocchetto all’ascoltatore, facendo ricorso ad improvvisi cambi di umore.

«Capri-cious» gioca sul registro medio-alto, tentando ancora la carta della melodia con striature sentimentali e qualche reminiscenza classicheggiante. «Solo Mio» è quasi un interminabile corsa a tappe basata su ganci melodici dal suono familiare, ma imperniati su accordi che sembrano provenire da lontano. In conclusione «Exit» è un commiato, un uscita nitida ed inventiva, breve ma intensa. La personalità del Canadese emerge prepotentemente nella formula piano solo dove, pur essendo molto libero, diventa più rassicurante, rispetto a certe sue produzioni, specie le prime, in cui risulta più astratto, sfuggente ed inavvicinabile per i neofiti. Per contro, in «Blues For Red», Bley costruisce il suo impianto sonoro su qualcosa di familiare, il blues, sviluppando gradualmente strutture più complesse ed inevitabilmente affascinanti. L’album è disponibile anche in vinile e fa parte del pacchetto ristampe della nuova Red Records diretta da Marco Pennisi.