// di Francesco Cataldo Verrina //

Gli anni Ottanta furono un periodo di metamorfosi, o forse di semplice adattamento ai tempi, per la maggior parte di quei musicisti che nei decenni precedenti erano stati associati al movimento free-jazz più d’avanguardia. Molti di essi finirono per essere assorbiti dal mainstream o per approdare ad una dimensione più contenuta, o riveduta e corretta, del post-bop. Personaggi come Lester Bowie, Archie Shepp o Don Pullen giunsero a più miti consigli, perfino lo stesso Don Cherry, uno dei massimi cantori del “volo libero”, raggiunse una nuova dimensione musicale più comprensibile, distesa ed universale.

L’album “Art Deco” ne è una dimostrazione. Il set è una sorta di rimpatriata, ma involontaria e non conclamata o strombazzata, dove Don Cherry ritrova il bassista Charlie Haden e il batterista Billy Higgins, compagni di avventure nel primo Ornette Coleman Quartet e, soprattutto, il sassofonista tenore James Clay. il quale dopo aver suonato con Cherry a Los Angeles negli anni Cinquanta, si era trasferito in Texas, rimanendo nell’ombra per alcuni lustri. Fortunatamente, non aveva ancora perso il suo naturale estro creativo ed esecutivo e la capacità di esprimersi con genialità e disinvoltura durante una sessione bop-oriented.

L’idea di una reunion fra 3/4 dell’Ornette Coleman Quartet per rinverdire i fasti del passato fu un elemento fuorviante in merito alla valutazione di questo album, in quanto la musica contenuta, pur appartenendo per un terzo al repertorio di Coleman, celebrato con tre brani (tra cui il classico “The Blessing”, che in questo set è abbastanza accessibile), si muove su un terreno molto più regolare, per quanto Cherry riesca ad esprimersi con l’inventiva e l’imprevedibilità di sempre, soprattutto il suo modo di usare una delle tante trombe tascabili del suo armamentario è davvero da accademia del jazz, per la resa sonora e creativa che il piccolo strumento riesce a sviluppare; l’altro punto di forza di “Art Deco” nasce sicuramente dall’opportunità di riascoltare, in una forma smagliante, un ritrovato James Clay, il quale nonostante l’età, sembrava non aver trascurato la lezione impartita al mondo dall’ultimo Coltrane, anche se il suo modo di suonare, complessivamente, ricorda di più quello di Sonny Rollins.

Ascoltando attentamente Don Cherry, ritorna alla mente persino il vecchio Harry “Sweets” Edison. Per dirla in soldoni, i fili e le trame sonore che sorreggono questo album sono alquanto ecumenici ed accessibili anche agli appassionati di jazz mainstream. Facilità di fruizione, non significa banalità o prevedibilità di esecuzione. Le dieci tracce si srotolano tutte con estrema fluidità e senza attrito alcuno, frutto dell’incontro di quattro musicisti di rango, che si muovono con destrezza e con un sincronismo quasi telepatico.

L’assenza di un pianoforte, e qui entra in ballo il metodo ornettiano, rende i movimenti della retroguardia ritmica più fluidi ed evidenti, rispetto alle progressioni armoniche dei due fiati, che si muovono quasi in assenza di forza di gravità. La title-track, “Art Deco” è una composizione attrattiva, che, nel corso degli anni, ha sedotto non pochi trombettisti, da Enrico Rava ad Avisahi Cohen. Il tributo ad Ornette è ampiamente riuscito: “Compute” , “The blessing” e “When will the blues leave” sono tra i momenti salienti dell’album, dove il flusso melodico interegisce alla perfezione con il groove. Altrove, Cherry e soci sembrano totalmente a loro agio, specie nella gioiosa versione di “Bemsha Swing” di Thelonious Monk, che da sola vale il prezzo della corsa, mentre “Passing”, a firma Billy Higgins, mostra quanto possa essere avvincente un assolo di batteria, se caratterizzato da una forte dose di groove in stile New Orleans.

Registrato il 27, 28 e 30 agosto del 1988 al VanGelder Studio per la A&M Records, “Art Deco” riporta l’avanguardia nel solco della tradizione e lo fa con una classe sopraffina, attestandosi nei quartieri alti della classifica ideale dei migliori dischi jazz degli anni ’80. Sicuramente è un album che non dovrebbe mancare in nessuna collezione che si rispetti.