// di Guido Michelone //

Mi faccio questa domanda dopo l’ascolto in vinile dei due album “At 12” e “Crisis”, fondamentali nella carriera del proprio autore, Ornette Coleman: in entrambi i dischi risulta decisiva la presenza di Dewey Redman al sax tenore, per dar vita a un persuasivo sodalizio che in qualche modo ripristina la front line avviata dal leader a inizio carriera con Don Cherry alla pocket trumpet (e interrotta per i trii), ma già presente assieme allo stesso Redman nelle primissime avventure musicali in pubblico nella band del college della texana Fort Warth (città natia per entrambi).

“Ornette At 12” e “Crisis”, pur incisi in momenti vicini, rispettivamente il 16 luglio 1968 al Hearst Greek Amphitheatre dell’Università di Berkeley e il 22 marzo 1969 alla New York University – due sedi prestigiose che in quel decennio vedono anche dipanarsi le contestazioni studentesche – risultano però dischi abbastanza diversi fra loro dal punto di vista musicale, benché accomunabili da generiche rivendicazioni socioculturali, secondo l’ésprit du temps: nel primo caso un appello scritto dallo stesso Coleman a mo’ di note di copertina, del secondo la foto del Bill Of Wright (leggi del Congresso americano) che sta bruciando, mentre le liner notes rimettono il tutto a questioni musicologiche, con lo studioso che si rifiuta di commentare politicamente un brani esplicito come “Song For Che”.

Ornette At 12 e Crisis esprimono quindi reciproche diversità dall’organico musicale all’approccio performante, agli esiti formali al sound complessivo. Il primo continua, tematicamente, la linea espressa dai procedenti “New York Is Now” e “Love Call”, sostituendo la ritmica coltraniana (Jimmy Garrison e Elvin Jones) con il ritmo di Charlie Haden (contrabbasso) e con l’innesto del figlio Denardo Coleman di soli 12 anni (da qui il titolo) alla batteria; Ornette impiega, oltre il sax altro, come sperimentato già da 3-4 anni, anche la tromba e il violino, componendo quattro lunghi brani (“C.O.D”, “Rainbows”, “New York”, “Bells And Chimes”) dove si alternano improvvisazioni collettive a strutture ordinate con temi persino romanticheggianti, pur nella veemenza astratta degli assolo fiatistici.

In quegli anni l’animo free – di fatto da lui inventato con l’omonimo album per doppio quartetto, assume prese di coscienza ideologiche, rabbiose, contestatarie, mentre Ornette rimane al di qua della politica attiva, quasi andando incontro a un lirismo sonoro, che è in parte riscontrabile nel successivo “Crisis”, dove però si assiste a una posizione maggiormente spinta, da parte dell’artista finalmente schierato fin dalla scelta del titolo. Persino i brani in scaletta – “Broker Shadows”, “Comem il faut”, “Trouble In The East, Space Jungle” – alludono all’engagement, che a sua volta si erge appieno nel già menzionato brano centrale, una ballata assunta a lamento funebre per la morte del guerrigliero Ernesto Che Guevara.

Il maggior equilibrio complessivo proprio a livello discografico di “Crisis”, uscito peraltro postumo di tre anni rispetto a “Ornette At 12”, viene altresì conseguito grazie all’allargamento a quintetto con il ritorno di Don Cherry (tromba e flauto indiano) nello stesso precedente organico (a cui va pure aggiunto il clarinetto per Redman): si tratta alla fine di una musica che alla fine non ha nulla a che vedere né con il misticismo dilagante dalla psichedelica allo stesso animo free (sulla scia di John Coltrane, la moglie Alice Coltrane, Pharoah Sanders, Alan Silva, Sun Ra già avvezzo, persino Don Cherry o Albert Ayler) né con la politica culturale del Black Power (Archie Shepp, Clifford Thornton, Roscoe Holcolm, l’Art Ensemble Of Chicago), quasi a voler testimonia la profonda rottura con il passato anche recente, con l’immaginifica autorevolezza dei suoni liberi, un po’ come va facendo l’altro grande profeta dell’animo free, il pianista Cecil Taylor.