// di Guido MIchelone //

Essendo il jazz ‘musica afroamericana’ come il blues, il gospel, il soul, il calypso, la salsa, la samba, il tango e il reggae, Vi chiedo quanto sia importante o conoscere – per noi che amiamo il JAZZ – altri protagonisti di queste musiche, come ad esempio Bob Marley. Qui di seguito alcune mie riflessione sul protagonista del reggae a più di 40 anni della sua scomparsa.

Bob Marley resta il più noto, osannato, gradito fra gli artisti reggae, il sound giamaicano tipico degli anni ’70 (ma che si protrae fino a oggi) che si impone in Occidente come musica ribelle alterativa sia al rock di matrice angloamericana sia al soul statunitense, giungendo quasi subito a influenzare parecchie altre musiche dall’Europa al Brasile, dall’Africa allo stesso Centro America. Bob Marley in tal senso è il primo artista popolare al di fuori dell’entourage sia britannico sia nordamericano ad andare fiero di tale diversità musicale – in fondo il suo reggae è qualcosa prima di allora mai udito, salvo in loco le radici ska, bluebeat, rock steady – che forse è l’arma vincente a livello planetario: lungo i Seventies proprio in virtù di tale fierezza razziale, culturale, musicale Marley diventa un’idolatrata pop star e dopo la sua morte – a Miami l’11 maggio 1981, mentre nasce a Nile Mine il 6 febbraio 1945 – a divenire un mito giovanile imperitura e un’icona pop leggendaria del XX secolo ai quattro angoli del globo terrestre.

Con Marley avviene dunque un fatto del tutto nuovo per l’industria musicale, destinato a cambiare non solo l’evolversi, ma soprattutto l’atteggiamento della musica ribelle nel contesto internazionale dei sofferti, ma intensi e creativissimi anni ‘70. Per la prima volta, nella storia della musica, infatti con Bob si assiste al trionfo di un sound del Terzo Mondo, che avrà come benefica ripercussione direttamente sullo show business una progressiva terzomondizzazione artistico-musicale fino a giungere alle attuali infinite varietà di world music e di ethnic music. Nessun musicista reggae o giamaicano o proveniente da Asia, Africa, Oceania, Centro e Sud America, però riuscirà a ottenere i picchi di popolarità, entuisiasmo, ‘divinizzazione’ del cantante, bandleader, chitarrista, performer, compositore, filosofo, politico.

Riascoltando i dischi di Marley, continuamente ripubblicati (nonché oggetto di culto) si arriva quindi a una considerazione utile e doverosa che concerne il ruolo fondamentale delle sonorità afroamericane, anche ben oltre quegli anni ’70: le musiche avvertite da storici e giornalisti come incontro fra Europa e Africa nel Nuovo Mondo, attraverso quasi un secolo e mezzo da Bessie Smith a Robert Johnson, da Tia Ciata a Harry Belafonte, da Celia Cruz ad Arsenio Rodriguez, vedono un’ulteriore passo in avanti nella rielaborazione che ne fa la canzone giamaicana mediante lo stile al contempo rock e africaneggiante dello stesso Marley. Nell’opera di Bob, in tal senso, per la prima volta di fronte a un’audience occidentale viene esaltato, anche con il supporto di elementi extramusicali, il ruolo primario del continente nero quale centro nevralgico di un ritmo universale.

Come si sa, infatti, Marley nei testi dei song e più in generale nelle teorie che stanno alla base del Rastafarianesimo, autentico credo teosofico-ideologico, pone l’Africa sub sahariana (in particolare l’Eritrea del Negus per la lotta anticoloniale) al centro delle proprie riflessioni, con il simbolico ritorno alla grande Madre Nera tra la meta finale, l’eden terreno, l’esodo biblico della propria gente. Non è ovviamente un discorso nuovissimo: sappiamo che anche per le genti di colore negli Stati Uniti, già a metà Ottocento e più massicciamente negli anni Cinquanta-Sessanta del XX secolo, a livello intellettuale, l’Africa esercita un forte richiamo, senza però andare oltre le élite sculturali o i musicisti impegnati, dall’hard bop al free jazz.

Grazie a Marley, comunque, questo discorso si fa ecumenico, coinvolgendo lo stesso pubblico bianco, che spesso abbraccerà la causa del reggae per quanto concerne i motivi più vistosi (l’apologia della marijuana ad esempio). A livello musicale invece il ragionamento sull’Africa risulta più stratificato: il reggae di Marley si distingue su ogni altra musica ribelle degli anni ’70 grazie all’incedere di un ritmo a levare, che profuma di esotico, ma che è solo un retaggio indiretto delle etno-culture più antiche.

In realtà questo battito fatto proprio successivamente dalle tendenze rock, blues, world, jazz neoafricane si evolve in Giamaica, già prima dei Seventies, con qualche pallido influsso tra mambo, calypso, limbo, soprattutto lungo una base di soul e rhythm and blues statunitense, ossia su quanto il giovane Marley orecchia probabilmente dai juke box o dalle stazioni radio americane percebili su un’isola caraibica di colonizzazione britannica (divenuta indipendente solo nel 1962).

Quello dell’autore e interprete di “No Woman No Cry”, “Jamming”, “Trenchtown Rock”, “I Shot The Sheriff”, “Exodus”, “Get Up Stend Up” e tanti altri successi, appare infine un doppio viaggio simbolico di andata e ritorno e poi ancora ritorno dall’Africa alle Americhe e poi al mondo intero che fa del reggae ancor oggi un fenomeno a se stante, unico, delizioso e riconoscibilissimo nell’arcobaleno msuicale contemporaneo, quasi una musica ribelle senza tempo, che unisce i ‘dannati della terra’ per usare la celebre espressione di Franz Fanon ai fricchettoni un po’ viziati di un Vecchio Continente sempre più multirazziale.