// di Guido MIchelone //

A prescindere, come direbbe Totò, questo è davvero un libro importante, giacché, per la prima volta, la storia del jazz viene raccontata, spiegata, commentata, in modo differente da tutte le altre pur brillanti narrazioni, che impostano la ricerca delle fonti sui musicisti, sulle biografie, sugli aneddoti, sulle microstorie, sui fatti epocali, spesso attraverso una sociologia d’accatto.

Le altre storie del jazz, spesso ‘storie di storie’, costruite sintetizzando quanto già detto e scritto da più o meno illustri predecessori, oltre evitare lo studio e il confronto delle informazioni primarie, arrivano sul mercato sotto forma di libri talvolta accattivanti o assai ben confezionati dal punto di vista grafico illustrativo; ma a una attenta lettura si scopre quasi subito che codeste altre storie mancano di collegamenti interdisciplinari che dovrebbero riguardare anzitutto un lavoro congiunto o parallelo di storici, musicologici, antropologi, mediologi e, in seconda battuta, un collegiale impegno ad affrontare il jazz all’interno di un più generale sistema delle arti, visto che la disciplina che dovrebbe occuparsi maggiormente di jazz risulterebbe l’estetica, che però – tranne qualche critico francese – oggi al jazz non riserva proprio nulla.

Ma ancor più clamoroso è rilevare (e rivelare) che le altre storie dedicano ai dischi le briciole (ovvero nulla): si citano e si analizzano pochi album (e pochissimi brani) a considerarli un corpo estraneo o un orpello inutile. Detto questo, è proprio Francesco Cataldo Verrina, con Jazz. Uomini & dischi dal bop al free, a colmare una grossa lacuna, poiché affronta finalmente il jazz nella sola prospettiva discografica, partendo dal presupposto – non del tutto scontato, come sembrerebbe, né fra gli studiosi né per i musicisti – che sia il disco l’unico riferimento testuale possibile. Per le caratteristiche del jazz, ritenuta un’arte performativa che rientra anzi combacia con le musiche improvvisate audiotattili, vi sono soltanto due modi di estrinsecarsi: suonare dal vivo o registrare un disco.

Va evitata, al proposito, la parola ‘concerto’, poiché il jazz, nel suo primo mezzo secolo di storia, risulta essenzialmente musica da ballo; i concerti veri e propri in teatro o all’aperto, secondo il modello fruitivo della musica classica, dell’opera lirica, della canzone d’autore, nel jazz iniziano sono a fine anni ’40, con il dixieland revival, seguito poi dalle varie tendenze moderne. Dunque, fin dai ruggenti Twenties, quando nascono i capolavori discografici di Jelly Roll Morton, Louis Armstrong, Bix Beiderbecke, Duke Ellington, ciò che viene, da loro, inciso sul 78 giri è molto diverso da quanto eseguono dal vivo tra cabaret, ballroom, speakeasy, night-club: su disco i jazzmen sperimentano una quantità di temi, assolo, sonorità, arrangiamenti, effetti, ritmiche, coloriture, timbri, melodie, che ‘live’ viene ridimensionata dalle richieste gastronomiche degli esercenti dei locali pubblici commerciali.

Da allora, quindi, il disco resta il mezzo o medium assoluto non tanto per immortalare o documentare, quanto piuttosto per fare, creare, inventare il jazz. Altre tecnologie ‘superiori’ come quelle audiovisive (cinema, TV, video) non riescono, fra l’altro in parallelo all’affermarsi storicamente del long playing (33 giri), a sostituire il linguaggio fonografico, perché, appunto, quest’ultimo nel jazz (e in seguito anche nel rock e nel pop) da mero supporto diviene subito testo concluso (o testualità rigida, come un libro o un film con un inizio e una fine).

È pur vero che nel jazz l’aspetto visivo-gestuale-prossemico fa parte di uno spettacolo talvolta messo in scena come una drammaturgia teatrale, ma alla fine, essendo predominante il suono come tale, ecco che anche il confronto del jazz con il teatro diventa ribaltabile: l’Otello di Shakespeare o l’Antigone di Sofocle vivono come teatro solo nel momento in cui gli attori recitano su un palcoscenico davanti un pubblico, mentre l’opera scritta è ‘solo’ letteratura, talvolta di altissimo valore estetico-culturale (come per le due tragedie sopraccitate). West End Blues degli Hot Five armstronghiani o il doppio Bitches Brew di Miles Davis possono essere spunto, pretesto, ‘canovaccio’ da inserire per un recital o una soirée, ma restano in primis un testo (riproducibile all’infinito contro la presenza effimera del momento concertistico): tra l’altro di questi due lavori non esiste alcune versione live, rispetto agli originali, in quanto dischi irriproducibili, come in moltissimi altri esempi lungo la storia dalle origini a oggi.

Qualcuno potrebbe obiettare che, stando alle dichiarazioni di molti jazzisti, sia più importante il concerto del disco, ma ogni jazzman sa benissimo di rendersi conto che è solo il disco (come lo spartito per il compositore classico) a restare e durare per l’eternità quale testimonianza oggettuale e definitiva della propria musica. A ulteriore dimostrazione dell’importanza del disco, c’è persino il concepire un live (spesso richiestissimo dal mercato) alla stregua di una vera realizzazione in studio, così come, in sala, il jazz regista quasi sempre in presa diretta con la filosofia del “buona la prima”, lasciando, negli archivi delle case discografiche, numerosi tesori di brani scartati (le cosiddette alternate tales) poi magari proposte, anni dopo, spacciati quali inediti favolosi o imperdibili (mentre nella realtà non aggiungono molto alla conoscenza pregressa dell’autore medesimo).

A questo punto non ha importanza sapere se per questo o quel jazzista il disco sia l’inizio o la fine di un percorso, perché il disco simbolicamente resta al centro delle loro attività espressive, nonché l’oggetto/soggetto più valido, duraturo, sincero, per esplicitarle. Una volta assodata la necessità del disco come interlocutore privilegiato della propria arte o dell’ideale comunicazione con il pubblico medesimo, Francesco Cataldo Verrina effettua una scelta di campo – dal bebop al free jazz – che non riguarda soltanto un ventennio particolarmente felice per la modernità jazzistica, ma attiene al momento storico in cui l’album jazz diventa un feticcio, un emblema, un culto, uno status symbol e soprattutto un ‘mito d’oggi’ per usare un’espressione del socio-semiologo francese Roland Barthes: si tratta appunto di una mitologia contemporanea che, per la musica, emerge unicamente grazie al jazz, per trasferirsi negli anni ‘70 tra gli anfratti del rock e della pop music prima della scomparsa (momentanea) del vinile a favore del compact-disc mai amato da jazzologi, jazzofili, jazzomani.

E oggi, anche e soprattutto nel jazz, quale legge del contrappasso sulla musica liquida, torna in auge proprio il vinile, grazie al rinato interesse verso i jazz album originai, insomma gli storici epocali LP, che, a centinaia, Francesco Cataldo Verrina descrive, spiega, commenta, sviscera con impareggiabile maestria, costruendo e ricostruendo di disco in disco la vera storia del jazz e, anche del jazz vero una storia formidabile come gli anni Cinquanta-Sessanta qui trattati con particolare entusiasmo, anni che non torneranno più, se non con l’ascolto di uno o di tutti i quasi 400 ‘padelloni’ discussi.