// di Marcello Marinelli //

“Miles runs voodoo down” scorre che è una meraviglia come le acque traparenti e pulite di un torrente di montagna nel suo letto naturale. Era il lontano 1970 e Miles Davis sfornava come un panettiere uno dei suoi tanti capolavori. Dopo il ritmo ipnotico di “Miles runs voodo down” non si può che fare transito in un santuario “Sanctuary” e far riposare le menti stanche del dopo l’ipnosi. Raccoglimento naturale dopo il ritmo incalzante e ossessivo del rito woodoo. Con “Spanish key” si ritorna al beat jazz rock con quegli echi spagnoleggianti tanto cari al nostro super eroe musicale. La formazione come una squadra di calcio allargata, con un modulo innovativo; un uno, quattro, due, tre, tre (tromba, due percussionisti più due batteristi, due fiati, un sassofono soprano più un clarinetto basso, tre tastieristi, due bassi e una chitarra). Tutti insieme appassionatamente in simultanea come in un’orgia musicale.

Fior fiore di musicisti freschi e genuini come il fior di latte di un caseificio di denominazione di origine controllata. “Bitches brew” dura solo 27 minuti per chi ha tempo di dedicare il tempo di mezz’ora per un solo pezzo e per lo più senza l’ombra di una voce, solo musica strumentale. Tutto sembra svolazzare qua e la, senza una logica precisa ma la logica c’è, è la logica dell’improvvisazione libera, su un canone condiviso; era l’estetica innovativa del nascente jazz rock. Miles Davis cercava qualcosa di nuovo, sperimentava e in questo suo sperimentare disorientava, ma non ci può essere solo musica rassicurante, la musica talvolta non rassicura affatto, un po’ come la vita, a volte rassicura, altre volte, ci fa paura e la musica sperimentale, a volte, fa paura. Un pezzo che dura mezz’ora si sa quando inizia e non si sa quando finisce, dal vivo potrebbe durare anche un’ora un po’ come il rito woodoo che richiama il titolo, una cosa che ci porta altrove con la testa, lo so è arduo pensarlo e viverlo, ma a volte è necessario andare oltre il già visto e il già sentito. Ecco questa musica ci porta oltre il già visto e il già sentito. Bitches brew, il “calderone delle delle puttane”, miscela altamente esplosiva da maneggiare con cura.

Sto finendo questo viaggio a ritroso con un altro brano di soli 20 minuti “Pharohs’s dance” e il doppio vinile continua a girare sul doppio piatto. Si sono vintage, orgogliosamente vintage ma non disprezzo la contemporaneità, anzi, è solo che a volte servono i viaggi nel tempo, per capire gli aspetti essenziali della modernità, nuovo e antico in un groviglio inestricabile, miscela esplosiva e salutare. Ora sono proprio alla fine di questo ritorno al passato e mi saluterò con un brano di soli quattro minuti e mezzo, cioè niente, brano dedicato al chitarrista del gruppo John Mc Laughlin che è anche il titolo del pezzo. Ho finito il mio viaggio di circa cento minuti. Di questi tempi è eroico sentire un disco, anzi due dischi dall’inizio alla fine. Ho ascoltato l’opera intera, ora vorrei una medaglia al valore per questo. Nessuno mi darà una medaglia al valore e allora chissenefrega delle medaglie e in preda ad un raptus non improvviso ma continuativo, giro il vinile e comincio di nuovo a viaggiare sullo stesso tempo e sullo stesso beat, rimettendo la puntina sui solchi di “Miles runs voodoo downs”.

Ormai sono nel vortice musicale e non riesco a stoppare i giradischi e fermare la testina. Il gruppo ha ripreso la sua forsennata azione ritmica e melodica e io ormai schiavo del beat lascio girare i dischi e non so quando riuscirò a fermarli. Credo di avere un delirio musicale, la mia mente girovaga fantasticando fra i meandri e tra le pieghe del tempo e non so se ne uscirò fuori, quindi con l’occasione vi prego, se non dovreste avere più notizie di me entro la fine della prossima settimana, venite a cercarmi, sapete dove trovarmi.