“Il camice bianco forse rappresentava la medicina ufficiale occidentale in contrasto con la medicina sciamanica tribale”.
// di Marcello Marinelli //
Il camicie bianco di Lester Bowie mi ha sempre incuriosito. Con gli Art Ensemble of Chicago era l’unico ad indossarlo e la cosa strideva con gli indumenti tribali del resto del gruppo fatta eccezione di Roscoe Mitchell che invece non aveva nessun tratto distintivo nell’abbigliamento. Il camice bianco forse rappresentava la medicina ufficiale occidentale in contrasto con la medicina sciamanica tribale e comunque non si spiegano gli abiti civili di Mitchell, Chissà la valenza simbolica di quella rappresentazione.
Qui anche in veste di leader esibisce orgogliosamente nel retro copertina il suo inseparabile camice bianco quindi la valenza simbolica valeva di per sè. Questo disco inizia con il pezzo che dà il titolo all’album , ovvero con una cover del brano famoso reso celebre dai Platters. Il brano dura 16 minuti circa e dopo in inizio in sordina c’è l’esposizione del tema in maniera abbastanza canonica. Poi invece il brano segue traiettorie tipiche del trombettista con grugniti, suoni aperti, soffiati che danno al brano una fisionomia tipica del suo universo musicale. Philip Wilson alla batteria, Hamiet Bluiett al sax baritono, (pregevole il suo assolo e pregevoli i suoi sovracuti) Fred Williams al basso e Donald Smith al piano assecondano gli umori free del trombettista senza però snaturate il tema originale che fa sempre capolino tra i claster del pianista e le dissonanze del gruppo. Fontella Bass e e David Peston, alle voci, presenti solo in questo brano, fanno il coro alla maniera tradizionale dei Platters, tranne che per dei sospirati all’inizio e alla fine del lungo brano e dei brevi intermezzi non convenzionali.

Mi piace molto la maniera di Lester Bowie di interpretare la tradizione. Per curiosità sono andato a risentire delle cover del brano in questione e devo dire che mi ha colpito l’interpretazione di Freddie Mercury, per quanto non sia mai stato un suo fan e dei Queen, ma devo dire che la sua cover ‘spacca’. Il secondo brano ‘Howdy doody time” una sigla di una famosa trasmissione televisiva degli anni ’60 è ri-letta in termini free. Il brano che chiude la facciata ‘ When the doom (moon) comes over the mountains’,una canzone popolare degli anni ’30 rielaborata alla solita maniera, con l’organo di Smith, il basso di Williams e la batteria di Wilson ei leader che rumoreggiano simultaneamente e solo alla fine viene esposto il tema che rende riconoscibile il brano originale.
Il lato B, tutti pezzi originali del leader e l’ultimo in comproprietà, si apre con ‘Rio negroes’ un brano ‘latin’, molto bello con l’assolo del leader, che sfoggia tutti i suoi suoni, e di Donald Smith al piano in evidenza. Il brano meno free del disco ma con l’incedere particolare del drumming di Philip Wilson che lo rende non banale, almeno per mie orecchie. ‘Rose drop’ un pezzo con Phil Wilson che fa la parte del leone, prima però un lungo momento rarefatto in trio, tromba, contrabbasso con l’arco e glockenspiel, immagino sia questo lo strumento che ascolto (le note di copertina non mi aiutano (la consueta approssimazione di Manfred Heicher), e poi il bell’assolo del batterista che in linea di rarefazione si concede un solo energico ma contenuto. Il disco finisce con Oh, ‘How the ghost sings’ che come evoca il titolo, chiama in causa i fantasmi e il clima del brano potrebbe essere impiegato in una sequenza un film ‘horror’, suggestivo seppur inquietante e la tromba di Lester Bowie tira fuori suoni dell’altro mondo. La tromba di Lester Bowie come medium per una seduta spiritica e con ancora la paura per il contatto con altri mondi mi accomiato dal disco e da questo scritto, avendo fatto il pieno di luci ed ombre demoniache.