// di Guido Michelone //
Queste trenta paginette escono in Francia nel 1948, finiscono presto nel dimenticatoio per essere quindi ristampata nel 2013 con una lettera di Jean Cocteau a mo’ di premessa e con un pensiero di Charles Delaunay quale postfazione. Basterebbero questi due nomi per comprendere la statura del poeta Gaston Criel (1913-1990) che nella vita fa di tutto (barman, portinaio, fondatore di riviste, affittuario di Sartre, segretario di Gide, attaché culturaloe in Tunisia) e naturalmente l’appassionato jazzofilo, nonché l’intellettuale antifascista, che passa i sei anni della seconda guerra mondiale nelle carceri naziste, dove ha tempo di maturare questo originalissimo pamphlet.
Swing è infatti un originale libello che dichiara a gran voce l’amore incondizionato per il jazz nella forma genuina, qui chiamata con i quasi due sinonimi hot e swing, mentre al termine straight viene lasciata una funzione negativamente commerciale. A sostegno della causa jazzistica, all’interno di una cultura francese dove la musica classica è ancora un passo (o molti passi) indietro rispetto alla poesia o alla pittura (citate abbondantemente) l’autore adopera una lingua fiorita, una prosa poetica talvolta barocca o debordante, insomma una forma surrealista che proprio nella cosiddetta scrittura automatica è l’arte che forse si avvicina maggiormente all’improvvisazione jazz.

Oggi, magari, lo stile di Gaston Criel può sembrare datato per gli eccessi di citazione, gli slanci continui di spiritualità laica, l’amor fou dove la carica emozionale travolge il pensiero razionale: ma il testo non vuole essere un saggio critico e nemmeno una polemica filosoficheggiante, perché l’intenzione primaria resta il tentativo di coinvolgere il lettore a interessarsi a una materia (il jazz) che per lui rappresenta il presente e il futuro della cultura, così come avviene per le avanguardie storiche parigine (e in genere europee) di cui egli stesso fa parte.
Forse l’aspetto più importante di Swing è l’approccio, sia pur europeista (in quanto a retaggi socioculturali), senza pregiudizi verso il jazz, ritenuto da lui un’espressione matura, quando ancora molti bianchi lo trattano quale curiosità esotica. Fra le righe, insomma, al di là di qualche proclama altisonante, vi si può leggere un invito molto serio a intendere tutto il vero jazz – e i nove nomi che fa sono indiscutibili: King Oliver, Bessie Smith, Sidney Bechet, Louis Armstrong, Johnny Dodds, Fats Waller, Lionel Hampton, Coleman Hawkins, Django Reinhardt – quale estetica innovativa quasi adattabile a ciò che oggi viene chiamata ‘ecologia della mente’, senza nulla togliere alla fisicità di una musica in continuo work in progress.