// di Guido Michelone //

A lungo il pianista Dollar Brand si fa chiamare solo col nome musulmano di Ibrahim Abdullah, per la conversione alla fede musulmana che molti altri suoi colleghi afroamericani seguono – sin dagli anni Cinquanta del XX secolo – in polemica col protestantesimo dei bianchi razzisti. E un disco come African Magic (ENJA 2001) pare simbolicamente rammentare che se il grande “Dollar” che deriva il suo nome dall’abitudine degli avventori delle taverne di Johannesburg dove si esibisce, di mettere un dollaro in un bicchiere posto sul pianoforte, si impone, non a caso, in esilio, all’attenzione del pubblico di tutto il mondo dimostrando che l’Africa non è solo la ‘grande madre’ degli antenati dei musicisti americani ma è ancora un serbatoio di talenti.

Nato nel 1934 a Città del Capo, all’anagrafe Adolph Johannes Brand, avvicinatosi all’Islam attorno al 1975 e da allora noto con il nome arabo è una figura essenziale del jazz contemporaneo: anzitutto è il maggior jazzista del continente africano e forse dell’intero Terzo Mondo, ossia fuori dall’asse culturale Nord America / Europa / Brasile / Giappone che da sempre fornisce musicisti, dischi, stili, linguaggi di alto rango nell’ambito di una comune fede nell’idioma afroamericano. Con lui già negli anni Settanta il jazz vive una profonda rivisitazione: egli è il primo ad applicare creativamente il folclore della propria terra (ritmi e canti zulu) al pianoforte classico, senza mai perdere di vista i segni fondanti come l’improvvisazione, il senso dello swing, il tocco individuale, ma ripensati con gli elementi ancestrali della reiterazione, del melodismo iterato, della magia ipnotica. Tutto questo rimane inalterato anche oggi in questo solista/compositore/banleader, dopo decine di album a suo nome (dal piano solo al grosso organico) attraverso un corpus unitario coerentissimo in cui è impossibile trovare un solo disco brutto o mediocre. Anche i dischi più recenti sono tutti come un poetico gioiellino, piccoli capolavori di simmetrie ed equilibri, nonché di amore per la musica, la vita, l’essere umano, giacché sussiste quasi una sorta di biografia in musica nei brani proposti e da lui composti e al contempo improvvisati

Negli anni grosso modo tra il 1989 e il 2002 Brand/Ibrahim da African Symphony ad African Suite fino a Ekapa Loduno, “abitua” un pubblico cosmopolita a opere impegnative, a largo raggio, di una baldanza quasi sinfonica, soprattutto quando il suo trio o il suo pianoforte interagiscono con formazioni orchestrali classiche. Che il tastierista sudafricano ragioni su progetti cultural-musicali di grande respiro, è chiaro a tutti: ma le suites dedicate alla Madre Africa o alla patria sudafricana per solo piano o comunque per organici jazzistici sono altra cosa e sono forse i lavori musicali più riusciti nel far convivere le esperienze sonore afroamericane con quelle ancestrali del Continente Nero come avviene ad esempio con gli LP African Piano, African Sketchbook, African Space Programme, Good News From Africa, Echoes From Africa, Water From An Ancient Well).

Sia i dischi interi sia i motivi singoli motivi sempre riflettono, quasi autobiograficamente, l’esperienza umana e musicale, sul piano evocativo e simbolista, in almeno tre direzioni: la geografia sudafricana, la storia del jazz, l’interculturalità contemporanea, riecheggiando spesso tre culture e tre sonorità: araba, europea, neroamericana, mentre il linguaggio pianistico – memore altresì dei suoi amori Erroll Garner, McCoy Tyner, Randy Weston – è come sempre percussivo, con reminiscenze monk-ellingtoniane, ma di recente anche più addolcito e cristallino: prevalgono spesso i toni romantici, le atmosfere nostalgiche, i ritmi arcani, per quello che in definitiva verrà forse ricordato come uno dei grandi del jazz.

Dollar Brand