«Le composizioni sono immediate e coinvolgenti, raramente si soffermano o si dilungano sulle idee, optando invece per transizioni lineari e progressive».

// di Francesco Cataldo Verrina //

A volte non c’è nulla di meglio di una singolar tenzone tra due sassofonisti. Una consuetudine che nasce con l’avvento del bop, quando i musicisti iniziarono a misurarsi in particolari jam-session che divennero delle vere e proprie gare ad eliminazione diretta. Ciò consentì a tanti boppers di affinare il proprio talento. A New York, come nella Chicago degli anni Cinquanta, strumentisti quali Johnny Griffin, Gene Ammons, Von Freeman e John Neely si sfidava l’un l’altro, soffiando a pieni polmoni e con impeto maniacale nei sassofoni che diventavano taglienti come un’ascia di guerra; per contro sapevano essere garbati e seducenti nel momento in cui eseguivano le ballate. Sia Ammons che Griffin avrebbero registrato delle blowin’ session con colleghi provenienti da altre città, quali Hank Mobley, John Coltrane, Sonny Stitt e Dexter Gordon.

Prima di trasferirsi a New York nel 1957, Clifford Jordan faceva parte della scuola dei tenoristi di Chicago; le sue jam erano delle istantanee musicali che rappresentavano il mood della sua città di origine. Non a caso la prima sessione di Clifford, all’epoca detto Cliff, in veste di band-leader per la blue Note, fu una specie di scontro la vertice con il sassofonista fiduciario di Sun Ra. «Blowing In From Chicago» di Cliff Jordan e John Gilmore, metaforicamente, fu un duello all’ultimo sangue e senza prigionieri. In realtà il timbro sicuro e sprezzante del pericolo del guerriero Cliff si compensa con il sound più sospeso ed illusionistico del prestigiatore Gilmore.

La dedizione di Gilmore all’orbita «plutoniana» di Sun Ra, dal 1953 fino alla morte del «santone» avvenuta nel 1993, lo ha sempre reso una figura misteriosa agli occhi dei puristi del bop e della stampa. Tuttavia, durante gli anni ’60, Gilmore si allontanò occasionalmente dalla Sun Ra Arkestra per realizzare vari dischi con Freddie Hubbard, Paul Bley, McCoy Tyner, Art Blakey, Andrew Hill e Pete La Roca. Gilmore considerava l’approccio di Sun Ra alla musica come una sorta di continuum del bebop partito con Charlie Parker, Dizzy Gillespie e Thelonious Monk. Il suo primo progetto in libera uscita dal pianeta Sun Ra fu proprio questa sessione del 13 marzo 1957, condivisa con il sassofonista «rivale» Clifford Jordan, Horace Silver al piano, Curly Russell al basso e Art Blakey alla batteria. «Blowing In From Chicago» fu vero incontro al vertice di tipo all-stars, consegnando tra le mani di Alfred Lion una delle sessioni più avvincenti dei quegli anni.

Clifford Jordan e John Gilmore erano entrambi nati nel 1931 e cresciuti a Chicago. Nello specifico, questo progetto collaborativo segnò il loro debutto condiviso com leader-band. L’album viene considerato da molti eminenti critici al livello di «Coleman Hawkins Encounters Ben Webster» e «Boss Tenors» dove Sonny Stitt incontra Gene Ammons. Anche in questo set i due contendenti fanno un ottimo lavoro completandosi a vicenda: Gilmore spesso ruba la scena a Jordan, operando una rifinitura dell’impianto melodico e distillandone il nucleo emotivo, mentre Cliff appare più concentrato a edificare la struttura portante del pezzo. Gli assoli sono accattivanti e mantengono il fruitore sempre allo stato di veglia, attraverso un hard bop allo stato dell’arte.

Le composizioni sono immediate e coinvolgenti, raramente si soffermano o si dilungano sulle idee, optando invece per transizioni lineari e progressive. L’album si apre con «Status Quo» che possiede le stesse variazioni di «There Will Never Be Another You» nella versione di Sonny Rollins. Le armonie create tra Jordan e Gilmore sull’abbrivio del brano sono espresse nella tradizionale forma bebop. Dopodiché, la competizione inizia ed arriva quasi al punto di ebollizione. «Bo-Till» è blues dalle sfumature latine, dove le linee di tenore armonicamente complesse e spigolose di Gilmore danno a Jordan lo start per una corsa ad ostacoli. Lo stile di Gilmore appare più esplorativo ed agile, mentre Jordan suona seguendo un canovaccio più tradizionale, a volte richiamando idealmente al proscenio Dexter Gordon, ma senza un eccessivo vibrato. Entrambi swingano oltre ogni immaginazione. Clifford Jordan ha registrato altri due album con la Blue Note, ma questo resta il suo climax espressivo. Un debutto al fulmicotone dovuto all’intensità che entrambi i sassofonisti immettono nella registrazione con l’esuberanza giovanile di chi desiderava dimostrare al mondo del jazz di poter e saper dire qualcosa.

«Blue Lights» e «Evil Eye» sono due bop in chiave minore insanguati di blues e basati su un mid-tempo che consente maggiore spazio di manovra sia ai due solisti che all’intera band. Dall’assolo di Gilmore s’intuisce quanto quanto questi sia stato influente su Coltrane, specialmente durante la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60. Proprio durante questo periodo, Coltrane prese lezioni da Gilmore, il quale usa il registro più altro dello strumento, mentre Jordan si ferma a mezz’aria. Nonostante l’agonismo, come già detto, i due si completano magnificamente. «Billies Bounce» di Charlie Parker viene eseguita con tempi rapidi, quasi ad una velocità doppia rispetto all’originale. Essendo la composizione più lunga, entrambi i tenori si estendono con risultati eccellenti, mentre la sezione ritmica mantiene il tempo costante oltre ad arricchire il costrutto con i propri assoli: il beat di Blakey è coriaceo e muscolare; dal canto loro Russell e Silver spingono ancora più forte aggiungendo consistenza. Nonostante l’ambientazione risulti più tradizionale per Gilmore, il sassofonista dimostra tutta la sua diversità ma non estraneità al vecchio vernacolo bebop, citando anche alcune delle frasi di Bird, prese da «Cool Blues» e «Klaunstance», mentre Horace Silver cita «52nd Street Theme» e «Rhythm-A-Ning» di Thelonious Monk.

Le melodie perfettamente curate su «Blowing in From Chicago» non fanno che aumentarne l’attrattività. Ognuno dei sei temi esposti possiede un senso di continuità appagante, come se potesse procedere all’infinito senza perdita di smalto o di interesse. «Everywhere» e «Let It Stand» di Horace Silver hanno qualcosa di festoso e ricordano i duelli tra Al Cohn e Zoot Sims. L’atmosfera è più leggiadra rispetto alle tracce precedenti ma ugualmente convincente. Jordan e Gilmore appaiono più rilassati. L’hi-hat di Blakey sposa le linee del walking di Russell, mentre gli zampillanti assoli di pianoforte di Horace Silver risultano sincopati ed ergonomici. Gilmore suona con un tono da narratore orientato alle radici della coscienza umana imbevuto dalle teorie di Sun Ra. Jordan, dal canto suo, è sempre più concreto. «Evil Eye» dissipa, però, la necessità di dover individuare un interprete piuttosto che un altro, mentre i due sassofonisti evocano l’illusione di un’associazione soprannaturale.

Nonostante la competizione, che forse rimane solo un espediente comunicazionale, ciò che caratterizza «Blowing in From Chicago» è una sotterranea moderazione che previene e salvaguarda l’album dall’essere un urlante replica delle performance di Griffin/Coltrane/Mobley, come «The Way You Look Tonight» o «I Know That You Know» di Rollins/Stitt, entrambe registrate lo stesso anno. È come se i due tenori fossero già in una fase evolutiva dell’hard bop, pur scattando una fotografia a colori dell’attualità di quel tipo di jazz attraverso la spettacolarità, ma uscendo dalle convenzioni.