// di Guido Michelone //

La dottissima analisi musicologica di Claudio Angeleri non esaurisce del tutto la comprensione della storia del jazz, che, per completezza appunto storica, dovrebbe basarsi sull’incrocio e sull’interrelazione fra differenti parametri critici e molteplici sistemi metodologici. Purtroppo non è stata ancora creata un’autentica jazzologia intesa quale musicologia del jazz (forse Vincenzo Caporaletti con la teoria della musica audiotattile è sulla buona strada), poiché quella adoperata – persino da grandissimi studiosi come Marcello Piras e Luca Bragalini – è ancora la musicologia classica: non a caso Angeleri cita trascrizioni al pentagramma, nonché autori colti (amati appunto da Evans, come credo da Jarrett che li ha pure suonati, non gli stessi, però).

Ora la comprensione e anche il piacere del jazz sfuggono alla musicologia, che nel jazz non spiega tutto, perché la storia del jazz è fatta senza dubbio di progressi tecnici, ma anche di una rappresentazione che fa parte sia delle arti performative (il concerto ovvero la cosiddetta composizione istantanea) e coreutiche (il jazz si balla per oltre metà del suo cammino) sia dei mezzi di comunicazione (il disco quale testo e oggetto multimediale, non mero supporto tecnologico). Lester Young ad esempio si spiega anche con il suo pork pie hat e con la posizione trasversale del proprio sax tenore, Louis Armstrong in rapporto alla mimica e alla gestualità, l’Art Ensemble Of Chicago in dialettica al trucco facciale e agli abiti africani, ecc., ecc. Per non parlare dei dischi, frutto di un lavoro registico (dal produttore al tecnico del suono) e della propria funzione di paratesto con le copertine, le immagini, le note di copertina, i testi dei brani o gli spartiti acclusi (assai di rado).

Questo per dire che BILL EVANS è di certo un innovatore tecnico-espressivo, ma rimane storicamente sovrastato, tra il ’56 e il ’73, da giganti come Miles, Trane, Ornette, Mingus, Rollins, Sun Ra e altri, che impongono non solo una musica, ma anche un’idea del jazz che perpetua la blackness ovvero LA CULTURA AFROAMERICANA oggettivamente estranea ai musicisti bianchi (mentre, per paradosso, una certa critica éngagé di pelel chiara ‘politicamente’ appoggia i neri). KEITH JARRETT agisce invece in un periodo diverso in cui, agli inizi o almeno per quasi tutti gli anni ’70 riesce a cavalcare mediaticamente le ondate giovanili del ‘riprendiamoci la musica’ che vedono in lui un ‘compagno di strada’ al pari di Braxton, Rivers, lo stesso Miloes e in genere i ‘fusionisti’ o i ‘creative men’ più arrabbiati, in quel connubio indossolubile jazz/politica per il nuovo pubblico europeo post-’68.

JARRETT insomma ottiene maggiore visibiltà di EVANS nel simboleggiare un immaginario collettivo, che si perpetuerà più avanti persino quando indossa lo stereotipo dell’artista snob e capriccioso durante un ulteriore cambiamento epocale, quando non si fischia più e si applaude di tutto. Questa è insomma la mia interpretazione culturologica, che mescola sociologia e mediologia lungo un preciso asse cronologico e che accetta comunque tutti i rilevi proposti dal bravissimo Claudio Angeleri.

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