// di Guido MIchelone //
Chi ama il jazz di solito ama l’Africa e chi ama l’Africa dovrebbe amare pure la scultura africana, di cui ci parla, in questo bel libro, il nigeriano Akinwande Oluwole “Wole” Soyinka ritenuto giustamente tra i maggiori scrittori africani di lingua inglese, soprattutto nella poesia e nel teatro, non caso insignito del Premio Nobel per la Letteratura nel 1986. Per la difesa delle proprie idee democratiche, lontane dal regime del paese natio, subisce il carcere, la tortura, l’esilio e una condanna a morte in contumacia. I molti i libri pubblicati in Italia dalla benemerita editrice milanese Jaca Book e forse questo Al di là dell’estetica. Uso, abuso e dissonanze nelle tradizioni artistiche africane (uscito nel 2020 appena un anno dopo l’edizione britannica) risulta il più utile per intendere la complessa diversità della cultura africana rispetto al mondo occidentale.

Va subito detto che leggere un libro di Wole Soyinka risulta da sempre un’impresa ardua ma di grande fascinazione, giacché si tratta di un intellettuale dalle idee profonde e dalle conoscenze quasi enciclopediche, che forse mirano inconsciamente a tentare di scandagliare la complessità talvolta assurda del mondo contemporaneo. In Al di là dell’estetica l’avventura parte, come spesso gli accade, da un elemento autobiografico, nei cui confronti si erge persino in maniera critica e ironica: la passione, divenuta spesso collezionismo per l’arte africana, come qualcosa, che egli stesso definisce oscillante tra l’amore per gli oggetti e il disturbo psicologico.
Scrive in merito Sovinka: “In Nigeria ho passato del tempo in prigione, ospite dello Stato, per le mie idee politiche, separato dalle mie sculture. Ho scritto poesie su di loro, così era come se fossero un po’ con me. Ma ovviamente non c’è niente come la loro palpabile presenza, quando puoi fisicamente camminare e spostarti da una all’altra. Le puoi toccare, risistemare, e questo riposizionarle fa parte del piacere estetico che ti danno. Sono ancora molto interessato e legato alla mitologia Orisha degli Yoruba”. E in tal senso egli ritiene perciò “(…) le divinità come prolungamenti, estensioni dell’immaginazione umana e mi reputo una persona spirituale. Nelle varie forme di spiritualità che ho incontrato, quella Orisha si addice alla mia sensibilità, ma alla fine – voglio sia chiaro – non ho il culto di alcuna divinità. Adesso sto contrattando il prezzo di un’altra scultura che vorrei. È un’insolita cariatide Yoruba in legno. Un pezzo legato alla procreazione. Molto bello. Finemente scolpito. Ma costa più di quello che, al momento, mi posso permettere (…)”.
Il discorso dell’autore comunque ruota intorno alla necessità di definire un canone artistico africano che nulla abbia da invidiare a quelli codificati di matrice occidentale; in tal modo, come sostiene Simona Maggiorelli nella recensione su «Left» del 29 dicembre 2020: “Il libro di Soyinka ci costringe a cambiare radicalmente prospettiva, avvicinandoci a un’estetica completamente diversa da quella imposta dal canone occidentale, evocando un’altra idea e immagine di bellezza rispetto a quella ‘apollinea’, neoclassica o realista a cui, come occidentali, siamo assuefatti da secoli”. Per la studiosa insomma “Dalle pagine di questo volume (in cui le parole dello scrittore hanno la stessa potenza di immagini di sculture, maschere, recipienti istoriati della tradizione Yoruba) emerge una composizione dirompente, splendidamente irrazionale, che ci tocca profondamente. La bellezza che ci riempie gli occhi e la mente vanno però di pari passo al dolore per le ferite ancora aperte dell’Africa profonda depredata, colonizzata (anche imponendo un’estetica occidentale), inascoltata. Di tutto questo Soyinka ci parla con linguaggio denso e poetico in questa serie di saggi, conferenze, riflessioni sull’arte a partire da opere che hanno nutrito il suo teatro”.