// di Marcello Marinelli //

JON HASSELL AND THE BLUESCREEN – DRESSING FOR PLEASURE
JON HASSELL AND FARAFINA – FLASH OF THE SPIRIT
JON HASSELL – LAST NIGHT THE MOON CAME DROPPING ITS CLOTHES IN THE STREEET
JON HASSELL – POWER SPOT

La Torre di Babele fu costruita da gli uomini per tentare l’unione impossibile tra la terra e il cielo e avvicinarsi a Dio e per non essere dispersi sulla terra, ma Dio aveva espresso il pensiero opposto e per punire gli uomini, che allora parlavano tutti la stessa lingua, li disperse, impedì la costruzione della torre, un’utopia ante litteram, e creò le varie lingue e confuse gli uomini che non si capirono più tra di loro, forse è questa la “vera” origine del detto “dividi et impera”. Gli uomini sono stati puniti per la loro arroganza di avvicinarsi al divino ma solo Dio è onnipotente e gli uomini comuni mortali. A allora la storia dell’umanità è la stessa, una “babele” (dal ebraico ‘balal’, confondere), di linguaggio di tratti somatici, di organizzazioni sociali, di pensieri, di visioni della vita, di idee.

Detto questo allora se la storia dell’uomo è questa, dobbiamo rilassarci e accettare la pluralità di idee, di espressioni e l’incapacità a volte di comprenderci. Fatta questa premessa, noi nei gruppi di jazz dove partecipiamo, ricreiamo l’antica e la moderna “Babele”, anche in un settore specifico come questo, siamo confusi e disorientati, perché cerchiamo di cogliere l’essenza di una cosa, nella fattispecie, la musica, in particolare il jazz, e allora quando crollano le certezze, barcolliamo e navighiamo a vista ma tranquilli, il navigare a vista è la condizione dell’umanità. L’indecifrabilità come tratto permanente e non come eccezione alla norma. Litighiamo sul significato autentico del jazz e dei suoi sviluppi futuri e creiamo confini che qualcuno cerca di abbattere in nome della modernità e dell’evoluzione e qualcuno si erge a difesa della tradizione, innalzando muri dialettici per impedire infiltrazioni contagiose. Tranquilli è sempre la stessa storia dalla notte dei tempi.

A proposito di difficoltà di incasellamento ho preso a pretesto un musicista che amo, Jon Hassell, che per tranquillizzare i custodi e i sacerdoti del tempio non è un trombettista jazz, ma allo stesso tempo mi sono sempre domandato, ma che musica è quella di Jon Hassell? Ad esempio nel disco “Dressing for pleasure” in un sito web scomodava questa sequela di nomi per definirne i confini, electronic, hip hop, jazz, breack beat, trip hop, future jazz. Della serie “Io ho capito ma te che hai detto?”. L’impossibilità , a volte della demarcazione netta, e per inciso nel disco compare una nostra vecchia conoscenza Kenny Garrett e forse in certe sequenze il disco richiama alla mente il Davis elettrico ma non vorrei rischiare di definire e di usare le parole, che Jon Hassell definiva “wordism” il “verbismo” applicato alla musica, che ci piace tanto, inutile nasconderlo, che a volte è una trappola dialettica e un labirinto mentale a l’eccesso di parole e la conseguente confusione che ne deriva non è per colpa nostra, è colpa della storia dell’umanità, siamo così.

Allora per sfuggire, si fa per dire, occasionalmente dalle categorie metto su un disco di Jon Hassell e parto per destinazioni sconosciute. Non so per destinazioni future, che a volte mi pare di intravedere, o in viaggio a ritroso del tempo, magari in Mesopotania alle origini dell’umanità. Mi piace esattamente per questo Jon Hassell, perché mi disorienta, con i suoi dischi posso immaginare di trovarmi in Africa, ad esempio il disco con i musicisti del Burkina Faso “Farafina” oppure in un villaggio indiano sperduto nel Gujarat oppure in una megalopoli di qualunque paese al mondo. Il suono della sua tromba è ancestrale ma è un suono con degli effetti ultramoderni, lo vidi molti anni fa dal vivo, aveva una strumentazione elettronica che sembrava un ingegnere della NASA.

Lo sconcerto, per me positivo, è che con strumentazione d’avanguardia crea quel suono atavico che però si ricollega al mondo moderno, crea l’effetto di un tempo circolare cosmico che si ricollega, un flusso sonoro in movimento reiterato alla maniera del minimalismo ed ipnotico, altro che reggae in quanto ad ipnotismo. Ora è chiaro che Jon Hassell è un esempio limite della fatica ad incasellare e se a qualcuno fa cagare vale sempre lo stesso consiglio che do in questi frangenti, sempre meglio di un lassativo, ma è veramente un artista “border line” a cavallo tra i generi oltre che a cavallo del tempo o dello spazio ed questo il motivo della mia scelta. Mi piace Jon Hassell perché mi immergo nella babele del mondo e nella confusione primordiale e mi faccio trascinare nell’indistinto e nell’ignoto.

E’ un trip anni ’70 allora? Forse si, negli anni ’70 ero un giovane fricchettone e quel retaggio me lo sono portato dietro ma Jon Hassell è ancora vivo e ha continuato a fare dischi fino allo scorso anno quindi non è catalogabile solo in quel periodo storico. Oggi poi ho fatto una scoperta incredibile, sempre a proposito di anni ’70. Era il lontano 1974 e nel disco di Francesco Guccini, un cantautore che ho amato, nel disco “Stanze di vita quotidiana” suona nientepopodimenoche Jon Hassell, chissà come ci sarà finito in quel disco. Per inciso c’erano Ares Tavolazzi (all’epoca negli Area) Vince Tempera e Tony esposito, quando si dice la combinazione. Se siete arrivati sin qui siete super eroi e vi ringrazio per la tenacia e la pazienza. E se non la pensate come me è normale, ricordatevi la nostra origine, ricordatevi la Torre di Babele.

John Hassel