// di Marcello Marinelli //

Avevo sentito parlare di puristi, ma non ne avevo mai toccato con mano il peso, l’autorevolezza e anche talvolta l’asprezza di alcuni giudizi circa alcune sfaccettature di musica intorno o inerenti al jazz, tutti perfettamente legittimi anche se, secondo il mio personale punto di vista, a volte esageratamente duri e fuori luogo.

Quando mi accingo a scrivere su dei dischi faccio caso all’etichetta, prima per me era perfettamente irrilevante, ma da quando scrivo qui ci faccio caso e quando mi capita un disco da commentare ECM mi faccio coraggio e sfido l’ira funesta dei sostenitori NO-ECM, non dell’ECM degli inizi quando qualcosa di buono aveva prodotto (secondo alcuni), ma della recente produzione, quella degli anni ‘2000, a cui si riferiscono questi dischi. Non mi aspetto certo sconti di giudizio e petali di rose, ma siccome è Natale e siamo tutti più buoni, mi aspetto solo pacatezza di giudizio. Siamo in Europa, negli anni ‘2000, precisamente dal 2005 al 2012. L’unico legame di sangue con ‘Mama Africa’, da cui tutto partì secoli prima con la famigerata tratta degli schiavi, che fece nascere dai suoi tragici sviluppi storici, una grande musica come quella che amiamo, è il batterista Manu Katchè, nato in Francia ma di origine della Costa D’Avorio, (quindi origini lontane) leader e compositore di tutta la musica di questi quattro dischi .

Questa premessa per me doverosa per sconfinare i giudizi, di qualsiasi tipo, in un ambito storico diverso da quello degli anni ’40, ’50, ’60, ’70. Se tutto succede in quegli anni e poi basta e se parlare di musica jazz negli anni ‘2000 è riconducibile solo e soltanto a quegli stilemi e se, quello che è successo di importante è successo solo in quegli anni, allora il jazz è solo ‘Deja vu’ e nient’altro e non andiamo oltre. La grande intuizione di Manfred Heicher è stata quella di aver capito che quel tipo di jazz, la gloriosa storia di quegli anni era finita negli anni ’70, e quando nasce l’ECM (1969), cerca di dare una fisionomia diversa, un diverso sviluppo musicale che prendeva le mosse da quella gloriosa tradizione per sviluppare un discorso musicale affrancato dalle origini, ma al tempo stesso debitore ed intriso di quelle origini.

Manu Katchè

Ora l’ECM per alcuni versi e per certe direzioni quelle radici le ha recise, concentrandosi su aspetti folk delle tradizioni musicali europee, specie nordeuropee, ma su una certa produzione quel legame non si è mai spezzato, questi dischi sono per me l’esempio di quello che ho appena affermato. Si tratta di un buon, in alcuni casi ottimo jazz europeo suonato da musicisti norvegesi, polacchi, svedesi, inglesi, francesi che conoscono la tradizione e che , come in questo caso, diretti da Manu Katchè suonano jazz e anche molto bene. Certo Manu Katchè ha un ‘pedigree’ non esclusivamente jazzistico, ha suonato con una miriade infinita di celebrità che con il jazz hanno poco a che fare, ma trattasi comunque di musicisti e compositori di indubbio livello, collaborazioni che hanno concorso a plasmare il suo drumming delicato ed energico al tempo stesso.

Ora non voglio perorare nessuna causa, a me questi dischi piacciono molto ed ho voluto fare alcune considerazioni in merito, però sono convinto del diritto di cittadinanza, che qualcuno potrebbe negare sbagliando, nella grande famiglia del jazz contemporaneo. Musica che riflette gli umori della casa tedesca, ma se ne distacca dal tipico sound mainstream colto-accademico, estremamente rarefatto ed etereo. Non conosco a fondo il catalogo ECM odierno per dare altri giudizi sulla sua recente produzione. Alcuni dischi ECM li trovo noiosi e ripetitivi, estetizzanti e privi di nerbo, ai confini dell’incorporeità, ma il catalogo è vasto e variegato e qua e là, anche nelle produzioni recenti si trovano ottimi dischi jazz e talvolta ottimi dischi non jazz. Il confronto, se ci deve essere confronto, si deve fare con altri aspetti del jazz contemporaneo e non del jazz dei bei tempi andati, perché in quanto a noia e ‘già sentito’ anche il jazz senza se e senza ma dei nostri tempi’ ne è pieno, infatti si ripiega, anche abbastanza frequentemente sui capolavori e sui musicisti del passato glorioso, per certi versi inarrivabili. Il Jazz non è morto , ne morirà mai, perché ci sarà sempre qualcuno che eseguirà musiche di Monk, di Coltrane, di Davis, di Ellington e di tutta la grande tradizione.

E’ morta la fase topica del jazz quella dei primordi che ha espresso il suo punto più alto in termini di creatività e di innovazione ma non la sua evoluzione in chiave moderna. Questi quattro dischi indicano una strada, non l’unica, esempi di jazz europeo contemporaneo affrancato ma intriso della grande tradizione afro-americana. Certo può non piacere, ma è un tentativo di originalità, di seguire una strada slegata dai classici stilemi degli anni d’oro e prettamente europea. Ovviamente chiunque può non tenerne conto ed ascoltare solo la musica dei tempi andati, i migliori tempi andati e rifiutare in blocco questi sviluppi od accettarne solo in parte altri magari solo quelli di matrice nord americana. Nota di merito per Marcin Wasilewky al piano (grande pianista) e Slawomir Kuriewicz al contrabasso che formano un duo di notevole spessore in ‘Neighbourhood’ (qui compare anche un altro illustre musicista polacco Tomasz Stanko) e ‘Playground’, ovvero la vitalità del jazz polacco. In ‘Playground’ completano il quintetto due interessanti musicisti norvegesi, Mathias Eick alla tromba e Trygve Seim ai saxes.

Ospite in due brani il chitarrista nord americano David Torn alla chitarra. in ‘Neighbourhood’ oltre il già citato duo polacco completano il quintetto il già citato Tomasz Stanko alla tromba e Jan Garbarek al sax tenore, (non presente in tutti i brani ed i suoi interventi misurati e chirurgici). Grande capacità di scrittura e di amalgama del batterista. in ‘Third Round’ Tore Brunborg ai saxes, Jacob Young alla chitarra, entrambi della ricca scuola norvegese, Jason Rebello al piano e Pino Palladino al basso, entrambi inglesi e Kami Lyle (americana) alla voce e alla tromba. in ‘Manu Katche’ Nils Petter Molvaer alla tromba (ancora Norvegia). Tore Brumborg ai saxes e Jim Watson (inglese) alle tastiere. Passo e chiudo.