“Il risultato di questa produzione a bassa tecnologia, per uno strano gioco del destino, risulta essere di ottima qualità sonora e costituisce un importante documento che cattura Konitz nella dimensione live, soprattutto in maniera diretta e spontanea”.

// di Francesco Cataldo Verrina //

Lee Konitz, musicista di notevole talento, capace di esprimere un sound ricco e sfaccettato, mai prevedibile, cresciuto alla scuola di Lennie Tristano, spesso viene circoscritto da molti critici e narratori di storie jazz nel ristretto perimetro del “cool”, ma Konitz, è stato molto di più, se non altro per una longevità artistica non comune, fatta di produzioni e collaborazioni importanti fino a pochi anni fa. È del 2011 il suo disco più recente; “Lee Konitz/Brad Mehldau/Charlie Haden/Paul Motian:Live at Birdland (ECM)”.

E’ ampiamente riconosciuto che, dopo il 1957, l’impostazione musicale di Lee Konitz assunse dei connotati assai diversi con un allargamento dell’orizzonte artistico rispetto al limitante ambito West-Coast-Jazz. Sperimentazione, ricerca, evoluzione tecnica ed esposizione fluida e coinvolgente dal vivo presero il sopravvento, attraverso un carico di note ed un sviluppo melodico-armonico superiore al lineare e pacato intrattenimento di maniera, tipico del cool. La storia di questo set, peraltro avventurosa, esercita una certa fascinazione su qualsiasi appassionato, se non altro incuriosisce.

Nel 1957, Lee Konitz aveva avuto un ingaggio di due settimane al Midway Lounge di Pittsburgh, quindi il 15 febbraio decise di fissare su nastro il set dal vivo con strumentazioni di fortuna. Singolare il fatto che il Peter Ind fosse addetto alla registrazione. Le apparecchiature erano collocate nei camerini, quindi, ogni volta il bassista doveva far partire le macchine e poi correre sul palco per unirsi alla band. Il risultato di questa produzione a bassa tecnologia, per uno strano gioco del destino, risulta essere di ottima qualità sonora e costituisce un importante documento che cattura Konitz nella dimensione live, soprattutto in maniera diretta e spontanea.

Il suono è sempre fluido, scorrevole e articolato, il flusso delle note risulta costante e senza perdite con un Konitz, che appare più dettagliato ed espressivo di quanto la sua etichetta “cool” indicherebbe. Il sax alto del leader resta sempre magicamente in prima linea, mentre il suo impeccabile fraseggio porta in superficie una musicalità sinuosa e piacevolmente avvolgente sostenuta dall’attento lavoro della sezione ritmica, dove Peter Ind al basso, il batterista Dick Scott e il chitarrista Billy Bauer forniscono un supporto pieno di risorse e metodicamente reattivo. Oltremodo, Konitz ebbe la brillante idea di correggere alcune tracce che presentavano qualche lieve difetto tecnico, senza che la session perdesse di spontaneità.

Le modifiche riguardano solo tre delle tracce registrate, ma l’ascoltatore ignaro e poco esperto difficilmente percepisce tali modifiche: due pezzi terminano in maniera sfumata, attraverso un ottimo fadeout e un altro finisce in modo leggermente brusco, ma il cut è razionale. In ogni caso, le modifiche non alterano il senso dei brani, le dissolvenze sono fluide e il set rimane una rappresentazione coesa di questo esperienza di lavoro. Da segnalare la presenza di Don Ferrara che suona la tromba su due tracce, “Pennies in Minor” di Lennie Tristano e lo standard “Sweet and Lovely”; non meno interessante lo spazio come solista concesso al chitarrista Billy Bauer in “You Go to My Head”, una struggente ballata, dove il ricamo della chitarra, pur rimanendo indietro rispetto al sax, crea uno dei momenti più suggestivi dell’album. Due le tracce firmate da Konitz, l’iniziale “Straightaway” e la conclusiva “Midway”, posizionate quasi a voler presidiare e recintare l’album con il suo marchio di fabbrica. “The real Lee Konitz” è un album che, quanto meno, dovrebbe essere ascoltato da tutti i veri appassionati di jazz.