// di Marcello Narinelli //
Quest’opera del 1969 di Dave Burrell, il pianista di Archie Shepp fino alla metà degli anni ’70, incarna lo spirito del free jazz collettivo che era stato inaugurato dal disco di Ornette Coleman “Freejazz” poi ripreso dall’ultimo Coltrane , in dischi come Ascension o Om, tanto per fare degli esempi noti e anche da altri musicisti. Per certi versi questo disco è più radicale e estremo dei capostipiti. Nei dischi citati un barlume di ritmo convenzionale appare qua e la, in questo disco scompare definitivamente ogni segno convenzionale di ritmo o di struttura armonica o melodica.
Nella prima facciata , come anche nella seconda, i musicisti cominciano ad improvvisare senza nessuna logica apparente, non è dato sapere se Dave Burrell abbia dato delle indicazioni ai musicisti oppure no, ma anche fosse stata data, alle nostre povere orecchie non giunge nessun elemento strutturato o riconoscibile di questo eventuale suggerimento. Clifford Thornton (tromba) Grachan Moncur IIi (Trombone) Artur Jones (sax alto) Archie Shepp ( sax tenore) Dave Burrell (piano) Alan Silva (contrabasso) Sunny Murray (batteria) sembrano dei pazzi furiosi con degli strumenti in mano in un manicomio di inizio novecento, la riforma Basaglia ancora molto in là dal venire. Noi poveri ascoltatori sembriamo usciti dal celeberrimo quadro di Munch (L’urlo) e ascoltiamo la gazzarra con le mani sulla testa e se non scappiamo a gambe levate alle prime note del disco rischiamo di rimanere imprigionati nelle quattro mura della casa dei pazzi.
Quelli che ce la fanno a scappare e non ce la fanno a rimanere, fuggono senza pensare verso lidi più rassicuranti. Chi decide di rimanere sceglie la via più ardua, la via della pazzia o della follia condividendola con i musicisti, che sono in piena trans mistica musicale. I sopravvissuti tra gli ascoltatori si immergono in questi riti sciamanici, si evocano gli spettri e i demoni in un guazzabuglio sonoro, un’orgia vera e propria che invece dei corpi intrecciati in un intreccio primordiale, intreccia note, urla, dissonanze. Il titolo di questo folle rituale musicale è “Echo” che copre l’intera facciata A, Echi di esplosione da Big bang, echi di viscere della terra all’interno del nucleo terrestre che smuove lava incandescente, echi di oceano in tempesta, echi di tornado e di uragani che tolgono la calotta cranica dei poveri malcapitati e iniettano loro fluidi magici che provocano spasmi e convulsioni. Questi non sono effetti collaterali della musica che esce dagli indemoniati, sono effetti voluti, cercati e in qualche modo suggeriti, non’ c’è scampo, siamo nel mondo della follia, per continuare l’ascolto bisogna entrare in sintonia con la nostra parte folle, è l’unica via di uscita.

E’ obbligatorio sottoporsi a questi riti di iniziazione? No, è solo per temerari ed arditi, per coloro che vogliono farse rovesciare le viscere sotto sopra e che vogliono fare uscite da dentro di se la parte oscura, quel “fondo enigmatico e buio” che ci contraddistingue insieme alle altre cose, ovviamente. Il freejazz di questo tipo è catartico, liberatorio, terapeutico, per chi crede in questo tipo di terapie. Negli anni ’60 e nei primi anni ‘70 c’era una forte componente rivoluzionaria in questi graffi sonori, c’era la ribellione politica e l’innovazione della forma con la sua capitolazione. Si rompevano le convenzioni, tutte le forma precedentemente codificate per entrare nel caos primordiale, un caos da cui bisognava rinascere e nuova vita, distruggere per poter ricostruire oppure passare attraverso le forche caudine della destrutturazione per una nuova forma di ristrutturazione. La distruzione di tutte le forme per la catarsi e la purificazione finale. Questo è l’aspetto dionisiaco così ben rappresentato dal filosofo dell’eccesso, del grande picconatore Friedrich Nietzsche, l’aspetto folle, l’irrazionale, il senso del tragico, la forza vitale del caos così facilmente riscontrabile nel freejazz.
Ora però il grande filosofo non pensava che l’aspetto dionisiaco dovesse esser l’unico aspetto, pensava che , prendendo esempio dall’antica Grecia presocratica, la soluzione perfetta fosse quella di un equilibrio tra le forze irrazionali, dionisiache con le forze apollinee che invece esaltavano la razionalità, la forma, il rigore, il senso della misura, in tutto il loro splendore e solo un legame equilibrato da questi due elementi facevano una grande città. Ora per tornare alla musica di cui è intriso lo spirito dionisiaco, mi sembra pacifico che non si può essere eternamente ed esclusivamente dionisiaci, anche perché ascoltare solo il freejazz, e un certo tipo di freejazz come il caso di questo disco, sia impresa sovraumana che neanche “l’oltreuomo” di Nietzsche potrebbe sperimentare, altrimenti si rischierebbe la totale ed irreversibile pazzia. Ora se siete arrivati fin qui siete anche voi animati da una sana follia e forse penserete che queste mie riflessioni siano prive di fondamento, e come darvi torto, d’altronde non sono il giudice di me stesso, siamo nel campo dell’imperscrutabile e io potrei avere avuto un abbaglio mistico, ascoltando in continuazione dischi come questo, e comunque se aveste riscontrato segni di evidente follia in me, non mi contraddite potrebbe essere pericoloso.
Ora per non rischiare l’involuzione mentale e la degenerazione delle mie cellule cerebrali, a cui tengo molto, e per non favorire la mia deriva degenerativa mi diletterò nell’ascolto di qualche cosa di più rassicurante e formalmente strutturato, credo che metterò sul mio piatto un disco di sano spirito apollineo, tanto per bilanciare il dionisiaco, di Gene Ammons “Blue Gene”. Ecco ora sono un po’ rinsavito e senza bava alla bocca, non sono più pericoloso, potete contraddirmi.
P.S.
La facciata B è interamente coperta da un brano che prende il nome di “Peace”, non oso immaginare come si poteva sviluppare il brano se fosse stato intitolato “War”.