// di Guido Michelone//
Negli anni ‘70 era comunque un fatto normale, dato per scontato, che i musicisti fossero impegnati e che con i dischi e i concerti diffondessero determinate idee. Oggi invece significa andare controcorrente e in quest’ottica i miei allievi al Conservatorio si meravigliano quando mi sentono dire che un mio brano “Ballad for a murdered student” era dedicato a Franceschi ucciso dalla polizia, oppure un altro “Que viva Nicaragua” alla rivoluzione sandinista, perché non sanno proprio che esistono queste possibilità con la musica e ci sono stati momenti storici oggi rimossi per una scomodità di ricordo, visto che siamo in pieno revisionismo storico-culturale” Così afferma nel 2002 il pianista, compositore, bandleader, ideologo Gaetano Liguori – nato a Napoli il 19 maggio 1950, ma fin da piccolo milanese d’adozione – che fra tutti i jazzmen affermatisi lungo gli anni ’70 è quello che meglio simboleggia l’idea rivoluzionaria di musica al 100%, espressa sia ai concerti tenuti in fabbriche, università, piazze, palasport sia in una discografia dai titoli emblematici.
Gli anni ’70 del resto per il jazz, in Italia, rappresentano il momento in cui il sound afroamericano diventa la bandiera rossa del proletariato giovanile assieme a pochi altri generi musicali come la canción rivoluzionaria sudamericana o il nuovo folk mediterraneo. Ma non ci sono soltanto i primi megafestival, come ad esempio quelli di Re Nudo, dove gli esponenti del free, ora rinominato creative music, vengono salutati quasi come eroi e talvolta rock star; ci sono anche i jazzman italiani che, oltre svecchiare un panorama artistico fermo al cool jazz nel migliore dei casi, si impegnano politicamente suonando ovunque, soprattutto in luoghi alternativi gestiti oppure ripresi e occupati da operai e studenti.

Tra questi jazzisti politicamente impegnati nella sinistra extraparlamentare – gli unici al mondo per assiduità e convinzioni – figura appunto Liguori, che nella propria autobiografia Confesso che ho suonato (uscita nel 2014 e curata dal noto jazzologo Claudio Sessa) ricorda soprattutto quegli anni ’70 ‘formidabili’ come vengono chiamati dal suo leader Mario Capanna, essendo entrambi militanti nel Movimento Studentesco di Milano, sia pur con differenti mansioni: per il giovane Gaetano bello, baffuto e capellone, alla tastiera, con il proprio Idea Trio (Roberto Del Piano al basso elettrico e Filippo Monico alla batteria e alle percussioni) è tempo di album programmatici con svariati musicisti (tra cui una propria big band free).
Strano ma vero: in Italia, dove si pubblica di tutto, le biografie dei jazzmen protagonisti della nuova musica latitano e, a parte due illustri precedenti (Giorgio Gaslini e Franco D’Andrea), è solo nel XXI secolo che si può leggere in volume le storie via via di Mario Schiano, Enrico Rava, Nicola Arigliano, Luca Flores, Gianni Basso. Probabilmente l’editoria non è affascinata dai ‘bravi ragazzi’ che, salvo il povero Massimo Urbani (per breve tempo nel gruppo di Liguori), morto per overdose, non hanno mai esistenze irregolari, ma solo un elenco più o meno copioso di dischi e concerti. Fa in parte eccezione alla regole Gaetano quando confessa all’amico Sessa, tra rivolte proletarie, avventure rocambolesche e viaggi altrettanto perigliosi nel terzo cosiddetto Mondo, anni e anni vissuti intensamente, di cui circa quaranta nel mondo del jazz lombardo.
Liguori – testimone d’epoca, dunque riferimento speciale per la musica degli anni ’70 – racconta, o meglio risponde, talvolta divagando, alle domande di Sessa che lo interroga su episodi salienti, pubblici e privati, esclusivamente dal punto di vista artistico e musicale. Ma il discorso sul jazz ovvero sul free e sulla musica degli anni ’70 (di cui Gaetano ci lascia almeno due grandi capolavori quali Cile Libero Cile Rosso e Cantata rossa per Tall El Zatar) assume una piega tra l’ideologico e il sociologizzante, evitando (di proposito?) le disamine o gli approfondimenti di pura musicologia, a favore dell’urgenza dell’impegno militante (o filantropico in tempi più recenti). Ne vien fuori un ritratto sincero ed esaustivo di un pianista e compositore a suo agio tanto nelle movimentate assemblee dell’Università Statale, quanto nel Nicaragua sandinista o nell’Iraq in attesa di bombardamenti o a Gerusalemme per suonare in mezzo all’Intifada.
Per un ulteriore verifica oggi è possibile visionare in rete il docu-film Gaetano Liguori. Una storia Jazz (2015) di Valerio Finessi: “È un viaggio attraverso i miei luoghi milanesi, intervallato da interviste a personaggi che raccontano come hanno incontrato e ‘vissuto’ Gaetano Liguori: da Franco Fayenz, il primo giornalista che mi ha scoperto, al mio bassista del Trio Idea Roberto Delpiano, passando per Gianni Barbacetto che ha condiviso con me i tempi della Statale (…) l’andamento stesso della mia vita, proprio come nel jazz, è stato caratterizzato dall’alternanza di certezze e momenti di improvvisazione…”.