“Un disco che segna la svolta elettrica, a tratti elettronica, degli Steps Ahead, non possiede la liricità e la compostezza stilistica dei predecessori, ma è un lavoro vivace e potente”.

//di Francesco Cataldo Verrina //

Non tutti i puristi del jazz sono disposti a riconoscere onori e gloria agli Steps Ahead, i quali rappresentano un momento assai fertile della creatività para-jazzistica multistrato che allignava e prosperava in quello scorcio di anni Ottanta, quando il mainstream sembrava essere davvero male in arnese e le contaminazioni apparivano eccessive e ridondanti. Gli Steps Ahead rappresentarono una sorta di break-even-point, un punto di pareggio e di confluenza fra tradizione e avanguardia leggera, attraverso un modus operandi che rispecchiava appieno l’estetica degli anni ’80. Una forma mentis basata su un jazz astratto ed eclettico, che si muoveva sostenuto da percussioni tribali, sonorità ambientali, canti e ottoni celebrativi ed infiltrazioni elettroniche.

Dalla combinazione di tali elementi scaturiva però un costrutto concettuale coerente ed un prodotto sonoro fluente, attrattivo e facilmente fruibile. Dopo l’esordi con “Step By Step” nel 1980 ed il capolavoro con il titolo omonimo alla band, ossia “Steps Ahead” del 1983, l’anno successivo, nel 1984, il line-up di si era consolidato con il tastierista Warren Bernhardt, riunito intorno al nucleo originario costituito dal sassofonista tenore Michael Brecker, dal bassista Eddie Gomez, dal batterista Peter Erskine e dal vibrafonista Mike Mainieri; ospiti occasionali il chitarrista Chuck Loeb ed il bassista Tony Levin. “Modern Times”, se cosi si può dire segna la svolta elettrica, a tratti elettronica, degli Steps Ahead, non possiede la liricità e la compostezza stilistica dei predecessori, ma è un album vivace e potente.

Una manna per i neofiti e per i patiti del jazz contaminato. Ai nastri di partenza c’è “Safari”, un componimento a firma Michael Brecker, un ottimo jazz di sintesi, dall’incedere rilassato e suadente, ma tecnicamente articolato e per nulla banale, seguito da un titolo dal suono onomatopeico, “Oops”, traccia dal flessuoso movimento esotico, ideale per gli amanti della musica lounge, strutturalmente sofisticato e tendente al virtuosismo. A dispetto dell’elaborata architettura, “Selfpotrait” è essenzialmente jazz ambientale, splendidamente realizzato e suonato, così come la title-track, “Modern Times” si appella ancora al virtuosismo dei singoli attraverso uno spettacolare e fluente cromatismo sonoro. La B-side si apre con “Radio-Active”, concepito dall’ospite elettronico; Graig Payton, e dal suo sintetizzatore; il brano appare come il più estraneo all’humus della band, giocato su ritmi elettronici, spezie orientali e funk metropolitano, ma finirà per diventare il pezzo di punta dell’album e quello più programmato dalle radio.

“Now You Know”, segna una fase interlocutoria e di passaggio, sia pure suonato con garbo, ma è quasi un esercizio di stile, fino al sopraggiungere del conclusivo “Old Town”, un coacervo di sonorità meticce dal tratto percussivo, che mette soprattutto in evidenza i talenti di Tony Levin. In realtà, ogni traccia enfatizza uno strumento, una sorta di accordo fra le parti, anche se il grosso del materiale è opera di Mike Mainieri (fondatore della band). “Modern Times” incarna perfettamente la visione fusion del jazz anni ’80: accessibile, amichevole, positiva e talvolta persino ballabile, con temi melodici ben sviluppati, accattivanti ed a presa rapida. Consigliatissimo!