// di Guido MIchelone //

Nato a Rosario il 28 novembre 1932 e morto a New York il 2 aprile 2016 – per il jazz degli anni ’70, il nome ma anche il sound dell’uomo e dell’artista argentino Leandro Barbieri detto Gato. restano ancor oggi associati, nell’immaginario collettivo, allo score di una pellicola – «Ultimo tango a Parigi», che Bernardo Bertolucci gira nel 1972 – entrata anch’essa nella mitologia popolare per ragioni extrafilmiche note a tutti (sequestro per oscenità, condanna al rogo in Italia e assoluzione solo in tempi recenti). Anche la musica di questo ‘ultimo tango’ – quale colonna discografica nota col tutolo inglese di Last Tango In Paris – è conosciuta (positivamente) fuori dagli ambiti jazzisti, mentre alcuni duri-e-puri non la ritengono vero jazz, benché s’avvalga di un ‘maestro’ quale Oliver Nelson (arrangiamenti e direzione orchestrali), oltre la partecipazione di molti solisti italiani, francesi, argentini di stampo jazzistico. Quel che è certo è che rimane un gran bel disco (anche romantico); e la struggente melodia che fa da leit-motiv, con il senno di poi (ovvero la giusta distanza storica) è pure da ritenersi il primo riuscito esempio di tango-jazz destinato a perpetuarsi solo molti anni dopo.

Ma che piaccia o meno ai parrucconi del jazz, il nome e il sax tenore di Gato Barbieri entrano prepotentemente tra i gusti del sound afroamericano avendo già dalla sua un album manifesto come The Third World (1969) dove fa capire che il jazz è anche un’arma terzomondista per le lotte che si conducono in un’America latina, dove la rivoluzione viene squassata dai golpe fascisti. Dunque già prima di Bertolucci, Nel giro di pochi mesi, tra il 1971 e il 1972 il sassofonista argentino regsita tre splendidi album. Fenix è il disco intitolato all’animale mitologico volante che rinasce dalle proprie ceneri, a mo’ di manifesto poetico, Gato reitera la lezione di The Third World, alternando, tra flauto e sax tenore, un sound incandescente a un intenso lirismo, tra sospensioni oniriche e impennate furibonde. Fondamentale il supporto percussivo dell’allora sconosciuto Nana Vasconcelos in un reprtorio quasi interamente dedicato al folclore sudamericano.

El Pampero è per il ‘gatto’ la consacrazione europea nel celebre festival svizzero avviene quasi per caso, con una ritmica a prestito dalla band di Aretha Franklin, oltre gli inossidabili Smith e Vasconcelos. Il live illumina o meglio conferma tanto il controllo sullo strumento, quanto la sapienza nel coniugare cantabilità e sperimentazione, in un connubio magico, all’epoca più unico che raro, a far scuola per almeno un intero decennio, per essere poi rimosso dai successivi jazzisti. Under Fire infine ha i brani dell’album che vengono incisi assieme a quelli del successivo Bolivia, mentre in realtà, nelle intenzioni dell’autore, il disco doveva essere uno solo. La casa discografica invece ne ha fatti due, forse per ragioni politiche, come qualcuno insinua, magari non a torto, per via di un omaggio a Che Guevara. Entrambi gli LP sono infarciti di jazzmen poi divenuti famosi (John Abercrombie, Stanley Clarke, Airto Moreria, Mtume, eccetera), mentre, fra i due, Under Fire risulta più coeso e strutturato.

Tuttavia Gato, una volta ottenuta la consacrazione internazionale, abbandona la Flying Duchman, per il rifiuto di una serie di concept album da registrare in loco con soli musicisti latinoamericani. È la Impulse ad accettare la sfida: e dopo gli LP di John Coltrane (e molti altri di area free) ecco, per l’etichetta newyorchese, un capolavoro assoluto da considerare e ascoltare nell’interezza e nell’integrità di un progetto organico e di uno spassionato tributo all’America Latina in tre anni (’73-’75)e quattro capitoli denominati semplicemente Chapter One, Two, Three, Four e via via quali sottotitoli Latin America, Hasta Siempre, Viva Emiliano Zapata, Alive In New York. Registrati con svariati musicisti a Rio De Janeiro, Buenos Aires, New York, restano soprattutto i primi due titoli, sul piano strettamente artistico, a levitare per inventiva, forza, coinvolgimento.

Gato protagonista assoluto del jazz degli agli ’70 è tra i primissimi a contaminare il post-bop con la musica etnica appunto del Terzo Mondo, come suggeriscono fin da subito i critici da tutti i paesi democratici. In appena un lustro, l’uomo, il solista, il conduttore e il bandleader si trova nella sua forma più smagliante e libertaria. Con un suono di derivazione coltraniana allo strumento affronta, fra rabbia e lirismo, il tango, la samba, il son, la rumba mescolandoli a numerosi altri ritmi e a giri armonici classici dell’area argentina (paese in rapporto di amore/odio per via della dittatura) e della cultura brasiliana (da lui romanticamente prediletta); ma il tipico sound latino del Sudamerica da Gato viene politicamente stravolto con una carica eversiva che rivitalizza il cliché terzomondista, collegandosi idealmente alla rivolta armata dei movimenti clandestini, in lotta contro i feroci regimi locali. una complessa rilettura di uno stile musicale da cui il jazz futuro riuscirà ad attingere felicemente.