// di Francesco Cataldo Verrina //

KAMASI WHASHINGTON – HEAVEN AND EARTH, 2018
Il jazz usato come un collante fra i vari stilemi della black music, tutti quei figli del «popolo del blues» che si si ritrovano improvvisamente insieme sotto lo stesso vessillo, un frullatore di swing moderno a più scomparti in grado di fondere a freddo i moduli espressivi di Stevie Wonder, John Coltrane, Art Blakey, Sonny Rollins, James Brown, Wayne Shorter, Marvin Gaye, Pharoah Sanders, Funkedelic e Herbie Hancock con l’aggiunta di cori di cinematografica memoria, ma senza dare troppo l’idea di essere il figlio di un’epoca musicalmente frammentaria e parcellizzata, dove il plagio o la citazione sonora vengono spesso scambiati per ispirazione (involontaria).
Kamasi Washington è un ottimo trasformatore dei materiali provenienti dalla miniera ispirativa della musica afro-americana; lo fa attraverso un suono magniloquente ed ampolloso, anche se assai duttile, certamente inconfondibile, aggiungendo un forte tratto distintivo e personale e trasportando il jazz sul piano inclinato dell’innovazione, dove novità significa essenzialmente libertà espressiva e compositiva.
«Sono cresciuto in una famiglia di musicisti, a partire da mio padre, jazzista pure lui. Ho ascoltato direttamente gli album di jazz, già da bambino, e quando mi sono accorto che molti rapper usavano pezzi musicali suonati in origine da jazzisti, mi ha fatto percepire il jazz come una cosa più alla moda e ‘cool’…».
Un concentrato idee fresche e sofisticate al contempo, in perfetto equilibrio tra un’inclusività empatica ed un’estetica sonora enfatica, capace di avviluppare l’ascoltatore, trascinandolo in una spirale di vibranti suggestioni. In questo crogiolo di razze musicali meticce, c’è tutta l’essenza del jazz del terzo millennio, al di là di inutili etichette e dogmatismi concettuali. «Se dici che Jerry Roll Morton e John Coltrane sono jazz, come puoi dire che John Coltrane e James Brown non siano jazz? Se John Coltrane e James Brown sono jazz, anche Marvin Gaye e Snoop Dog sono jazz, quindi se lo è Snoop Dog, lo è anche Kendrick Lamar. Il termine jazz è così onnicomprensivo che lo potresti usare per molta della musica americana».

KAMASI WASHINGTON – «HARMONY OF DIFFERENCE», 2017
Questo album è passato quasi inosservato, forse perché incastrato fra due album monumentali, l’acclamatissimo «Epic» del 2015 ed il naturale follow-up, «Heaven And Earth» del 2018; eppure, «Harmony of Difference», uscito il 29 settembre del 2017, merita di essere ascoltato attentamente: le emozioni sono tutte concentrate in poco più di 30 minuti (31.24 per l’esattezza) di musica composta, a detta del sassofonista, «Per esplorare le possibilità filosofiche di quella tecnica musicale conosciuta come contrappunto (…) l’arte di bilanciare somiglianza e differenza per creare armonia tra melodie separate».
Un esplicito desiderio di esplorare i confini dei linguaggi sonori, con il sostegno di un ensemble di strumentisti decisamente ampio, comprendente una sezione di archi, fiati, vibrafono ed un coro di nove elementi. Presentato a New York alla Whitney Biennial durante uno spettacolo che includeva un film del regista A.G. Rojas ed i dipinti di Amani. la sorella di Washington, si compone di una sorta di concept a sei tracce. Come in tutti in lavori di Kamasi, la musica si traduce in una metafora dell’attuale situazione socio-politico-economica, quale terreno di scontro e di nuove battaglie su questioni di razza, di genere, di orientamento sessuale e di appartenenza culturale. Le sei melodie rivelano la maestria compositiva Washington.
Cinque temi relativamente brevi e proposti attraverso ottimi arrangiamenti, tutti apparentemente a sé stanti, ma concatenati nella lunga suite di 13 minuti, «Truth», che incarna i principi di tutti i brani precedenti, sviluppando, però, un inedito arcobaleno sonoro, comprensivo ed olistico. Come di consueto Washington attinge a piene mani al ricco patrimonio jazz afro-americano degli anni ’70, e non solo: in «Desire» è il fantasma di Coltrane che aleggia nell’aria; il brano s’incammina su un percorso modale, introducendo un tema melodico vagamente spirituale e dal taglio soul-jazz, ma con la chitarra elettrica di Matt Haze che, sostenuta dai vocalizzi del coro, spazia dappertutto, da Billy Harper a Santana. «Humility» crea l’effetto big band, la progressione sembra sviluppata da un flotta di musicisti, dove assolo di piano di Cameron Graves si muove a spirale, mentre Dontae Winslow si fa spazio con la tromba, attraverso un tagliente break soulful; dal canto suo Kamasi, nella burrascosa fuga in solitaria, s’interfaccia alla perfezione ai due batteristi, Tony Austin e Ronald Bruner, Jr., ed al bassista Miles Mosely.
«Knowledge» e «Perspective» puntano verso le terre calde del Pacifico, strizzando l’occhio e l’orecchio ai colori ed ai suoni tipici della CTI, con un arrangiamento che predilige la ricchezza e l’impasto dei fiati. L’assolo di trombone di Ryan Porter esce direttamente dall’anima di Los Angeles, mentre il groove di Kamasi rimanda al funk-jazz di Grover Washington Jr. A colpi di smooth-jazz si arriva ad «Integrity», la cui melodia richiama elementi brasiliani, latini e ritmi dell’Africa occidentale.
«Truth», che occupa l’intera seconda facciata dell’album, è multiforme e tentacolare. Con l’aggiunta di un coro, un vibrafono e un’intera sezione d’archi, la lunga suite di 13 minuti fonde i temi proposti nelle altre 5 tracce brevi e li srotola fino al punto di amalgama, saldandoli senza soluzione di continuità in un caleidoscopio di colori, tempi cangianti, improvvisazione e forme espressive lussureggianti ed esotiche. «Harmony of Difference» svela la componente più intima di un Kamasi Washington, più dolce e meno «guascone», la cui esposizione sonora risulta sempre gradevole con lievi punte di malinconia, ricco di sfumature e variazioni, complesso, articolato, ma coerente; il sassofonista appare meno santone, ma «voce» narrante di sentimenti e valori umani in un concentrato idee fresche e sofisticate al contempo, in perfetto equilibrio tra un’inclusività empatica ed un’estetica sonora enfatica, capace di avviluppare l’ascoltatore, trascinandolo in una spirale di vibranti suggestioni. In questo crogiolo di razze musicali meticce, c’è tutta l’essenza del jazz del terzo millennio, al di là di inutili etichette e dogmatismi concettuali. Un album da aggiungere alla vostra short-list al più presto, qualora non l’abbiate già fatto.

«The Epic» di Kamasi Washngton, pubblicato nel 2016, è un poema epico, triplo album in vinile, 172 minuti musica, davvero un’opera mastodontica, già consegnata agli annali della storia della musica contemporanea. Per molti critici, esperti e musicologi è da considerarsi come uno dei 100 dischi più importanti dell’intera storia del jazz mondiale. Non dovrebbe mancare nella vostra collezione.